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Invece di impiegare i militari dell’Esercito (“azione poco efficace dal punto di vista operativo”), si potrebbero fare controlli più mirati sugli assembramenti, magari innalzando a mille euro l’ammenda per le violazioni. È la proposta di Michele Nones, vice presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai), che con Formiche.net ha commentato le novità dalla Difesa contro il coronavirus, compreso il ricorso alle unità impiegate nell’operazione Strade sicure. I militari schierati per l’emergenza sono 4.800, con 321 mezzi, elicotteri e velivoli. Il contributo spazia dai 6.800 posti letto messi a disposizione, fino alle avanzate capacità maturate dalle Forze armate, dal rapido dispiegamento di ospedali da campo. al trasporto in biocontenimento. I dubbi espressi da Nones non sono su queste eccellenze, quanto sul dispiegamento dei militari per le strade, in affiancamento alle forze di polizia nel controllo del rispetto sulle misure adottare dal governo.

Che ne pensa di questo dispiegamento?

Noto che la domanda è forte soprattutto dalle autorità locali, sindaci e governatori, affinché ci sia un maggior utilizzo dell’Esercito nella sorveglianza del rispetto delle limitazioni fissate dal governo. È un atteggiamento comprensibile, considerando l’altissima preoccupazione circa la mancata inversione dell’espansione del contagio. Tuttavia, dal punto di vista operativo, non credo sia una soluzione efficace.

Perché?

Prima di tutto è importante ricordare che i militari attualmente impegnati nell’operazione Strade sicure sono circa settemila, e che questo è ormai il terzo anno in cui si è invertito l’impegno all’estero rispetto a quello interno. Nelle missioni internazionali, l’Italia dispiega circa 5.600 unità, e ciò basta per capire quanto sia già elevato l’impegno sul territorio nazionale.

Sì, ma perché non sarebbe efficace un aumento in un’emergenza come questa?

Perché la distribuzione dell’Esercito sul territorio nazionale è stata via via spostata nelle regioni dei bacini di reclutamento e in quelle aree in cui era possibile localizzare le attività addestrative e residenziali. Ciò ha fatto sì che, rispetto ai tempi della leva obbligatoria, le città del nord abbiamo visto progressivamente svuotarsi le caserme, molte delle quali sono state restituite ad altri utilizzi pubblici. Ora, tornare a inserire il personale militare in queste aree vuol dire inevitabilmente doverlo alloggiare in strutture abitative che, innanzitutto, dovrebbero essere messe a norma per la necessità di rispettare la distanza sociale identificata dal governo come essenziale per evitare il contagio.

Mi sembra di capire che la soluzione non la convince.

Direi di no. Bisognerebbe trovare posto per altre migliaia di soldati che attualmente non sono impegnati in Strade sicure. Vuol dire organizzare strutture di supporto, dai mezzi alle mense. E ciò mi sembra molto rischioso per il personale militare, chiamato a operare in ambienti potenzialmente contaminati in tali condizioni. A differenza delle forze di sicurezza già territorializzate (Polizia e Carabinieri hanno residenza dove operano) i militari sarebbero messi tutti insieme in caserme, strutture comuni che, come si sta vedendo per le case di riposo, gli ospedali e i conventi, sono proprio i luoghi in cui si sta diffondendo più facilmente il contagio. In sintesi, dal punto di vista operativo, un aumento significativo dei militari in queste aree potrebbe addirittura risultare controproducente, trasformando uno strumento di difesa in un veicolo di propagazione del contagio. C’è poi il capitolo della preparazione.

Cioè?

Bisognerebbe preparare i militari a svolgere compiti per i quali non sono stati preparati. Siamo già passati dall’impegno in operazioni a rischio, all’estero, per cui i militari vengono adeguatamente addestrati, a operazioni di sorveglianza del territorio in funzione anti-terrorismo e di contrasto alla criminalità (con l’operazione Strade sicure). Ora, bisognerebbe passare a compiti di imposizione ai cittadini delle misure adottate dal governo, e per questo non credo che i militari rappresentino, per formazione, addestramento e atteggiamento, la forza più adatta.

C’è però chi sostiene che possano dare un segnale di autorevolezza dello Stato e spingere al rispetto delle misure di isolamento sociale.

Penso che un’emergenza sanitaria come questa, così diffusa, dovrebbe essere tenuta presente da tutti gli italiani. Immaginare di ricorrere alla militarizzazione delle strade per far rispettare limitazioni che sono nell’interesse di tutti mi pare un approccio negativo. Un attestato di grande sfiducia. Se dovessimo ricorrere ai militari per generare paura nella popolazione, saremmo messi proprio male, e io non credo (per quello che ho visto, quantomeno nei centri cittadini) che siamo in questa situazione.

Eppure, in alcuni casi sembra effettivamente che non tutti abbiano percezione dell’emergenza.

Che nella fase iniziale non siano state rispettare le limitazioni è un fatto certamente esecrabile, ma bisogna chiedersi fino a che punto siano stati opportunamente chiariti la natura e i rischi del contagio, nonché le limitazioni imposte. Nelle prescrizioni sono stati lasciati margini di ambiguità, e nel vuoto molti possono averne approfittato. Il problema è il vuoto.

Ritiene che ci siano stati problemi di comunicazione da parte del governo?

Ritegno che in casi come questo il messaggio debba essere chiaro, univoco, costante e non complicato. Lo dimostra la distanza sociale di un metro. È l’unico criterio chiaro, e se lo fosse stato fin dall’inizio, con appositi controlli, forse non saremmo arrivati a questo punto. I controlli andavano eseguiti in questa direzione, mirati. Non sulle persone a passeggio, ma sugli assembramenti. Non è un caso che in Francia abbiamo fatto ricorso a droni per individuare assembramenti di persone. E non ci voleva granché per immaginare, con le scuole chiuse, che i giovani si sarebbero riversati nelle prime fasi in parchi e piazze.

Propone dunque controlli alternativi rispetto a quelli in corso?

Sì. Occorre passare dai controlli burocratici in corso (che fermano tutti) a controlli più mirati, in cui si identificano solo le persone che palesemente sembrano non rispettare le normative in vigore.

E come si fa a capirlo?

Secondo il criterio dell’evidenza. Se qualcuno passeggia accompagnato, è evidente il mancato rispetto della normativa. Al contrario, un controllo sistematico e indistinto fa perdere tempo, soprattutto al personale che potrebbe essere usato più efficacemente, magari anche dividendo le pattuglie.

Che intende?

La pattuglie sono sempre fatte da almeno due agenti. Eppure, ci sono altri Paesi, come Stati Uniti e Regno Unito, in cui il personale di sicurezza opera anche individualmente a seconda del rischio e della situazione. Per identificare singoli cittadini che non presentano atteggiamento minaccioso, penso possa bastare un agente, un vigile o un finanziare. Favorire pattuglie consistenti pare poco efficace.

E i militari non potrebbero comunque supportare questo sforzo?

Fino ad ora, tutte le volte che è stato richiesto l’intervento delle Forze armate in compiti civili, lo si è fatto alla luce di una carenza, quantitativa o qualitativa, manifestata dagli organismi civili che si dovevano occupare del tema (dalle nevicate alla spazzatura), oppure per l’imprevedibilità del fenomeno (come per i terremoti). La situazione attuale non è questa. L’Esercito in strada non supplisce alla carenza dei meccanismi destinati a svolgere questi compiti. Nessuno può infatti lamentare che le forze di sicurezza non stiano facendo il loro lavoro e non siano particolarmente presenti. Inoltre, invece di ricorrere ai militari, si potrebbe rendere più forte la minaccia dell’ammenda.

Aumentandone il valore?

Sì, affinché sia un vero disincentivo di comportamenti non corretti. Attualmente, l’articolo 650 del codice penale prevede un’ammenda fino a 206 euro, e non mi sembra un deterrente così forte per i cittadini. Negli Stati Uniti, i turisti italiani restano sempre colpiti dai cartelli che segnalano contravvenzioni di mille dollari per chi butta spazzatura in strada. Ecco, credo che un’ammenda da mille euro per questa situazione possa rappresentare una minaccia efficace, sicuramente migliore rispetto all’ipotesi di condanna carceraria che qualcuno sta ventilando; ipotesi poco credibile per un reato come questo e tendente all’ennesimo condono proprio mentre la magistratura sta cercando di ridurre il sovraffollamento delle carceri.

Tornando ai militari, il senatore Gianluca Ferrara del M5S ha proposto di far tornare le unità impegnate all’estero per contribuire all’emergenza nazionale. Che ne pensa?

Mi sembra il vecchio detto secondo cui “la lingua batte dove il dente duole”, tale per cui ogni occasione è buone per prendersela con le missioni all’estero. Nel caso dell’Afghanistan, solo per fare un esempio, ci vorrebbe al minimo un anno per ritirare il contingente in sicurezza, senza tenere conto del rapporto con gli alleati e del rischio di buttare vent’anni di impegno mollando ora gli afghani. Se il ragionamento è sui costi, visto che tutti saranno chiamati a fare sacrifici, è bene valutare ogni sacrificio sulla base del rapporto costo-efficacia. Si potrebbero mettere in discussione misure come il reddito di cittadinanza, e non la presenza all’estero, uno dei pochi strumenti che funziona per garantire che l’Italia non venga degradata al rango di potenza di terzo grado.

Perché ho dubbi sui militari in strada contro il virus. Parla Nones (Iai)

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