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Da diversi anni, ormai, i governi occidentali hanno deciso di aumentare le loro attenzioni verso gli Istituti Confucio che, spiegava ormai sei anni fa sul manifesto il sinologo Maurizio Scarpari, sono “un’emanazione dello Hanban, istituzione no-profit affiliata al ministero dell’Educazione e diretta da un consiglio costituito da membri d’alto rango del Pcc (Partito comunista cinese, ndr) e di diversi ministeri e commissioni ministeriali”. Lo Hanban”, continuava Scarpari, che ha insegnato per 35 anni lingua cinese classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, “finanzia direttamente” gli Istituti Confucio “che, a differenza dei loro ‘omologhi’ europei, non sono indipendenti, ma consorziati con le università e gli istituti di istruzione superiore (presso i quali vengono aperte strutture più snelle, le Classi Confucio, Cc), al cui interno hanno spesso la loro sede istituzionale”. Eccola, la differenza con gli omologhi europei: gli Ic — a differenza dei British Institute e dei Goethe — sono collocati all’interno delle università ospitanti con cui collaborano per erogare finanziamenti e organizzazione eventi e attività culturali.

Stando al sito dello Hanban, gli istituti nel mondo sono oggi 541, di cui 135 in Asia, 61 in Africa, 138 in America, 187 in Europa (in Italia ci sono 12 Ic e tre Cc), 20 in Oceania. E rappresentano “importante strumento per la Cina per promuovere la sua immagine e il suo soft power”, nota il South China Morning Post. Lo stesso giornale che ha recentemente rivelato un’opzione di rebranding.

UNA NUOVA IMMAGINE…

Negli ultimi tempi “le strutture sono state accusate di promuovere la propaganda del Partito comunista” e sono state cancellate da molte università occidentali, scrive la testata hongkonghese. In particolare negli Stati Uniti, dove il comitato investigativo della Camera ha aperto l’inchiesta. Ma anche in altri Paesi come la Svezia che, da primo Paese europeo a ospitare un Ic, ha deciso di chiudere a gennaio l’ultimo Ic e a maggio l’ultima Cc. E come il Belgio, dove a giugno è scaduto e non è stato prorogato il contratto della la Vrije Universiteit Brussel con l’Istituto Confucio. A dicembre l’ateneo aveva spiegato che “cooperare con l’istituto non è più in linea con le sue politiche e obiettivi”, dopo che l’ex direttore dell’Istituto finanziato dal governo cinese, Song Xinning, è stato accusato dai servizi d’intelligence belgi di spionaggio a favore di Pechino: lavorava da un reclutatore. 

Così, Pechino ha deciso di cambiare nome. In una direttiva governativa, Pechino ha spiegato che il quartier generale degli Ic, cioè lo Hanban, ha un nuovo nome: Centro del ministero dell’Educazione per l’educazione linguistica e la cooperazione. L’organizzazione ha cambiato nome anche all’account sul social cinese WeChat anche se, specifica il South China Morning Post, non è chiaro se gli Istituti Confucio negli altri Paesi verranno ribattezzati.

… PER CONTINUARE GLI SFORZI

Al telefono con Formiche.net, il professor Scarpari spiega oggi che si tratta di “un adeguamento dei termini, non della sostanza”. “Quello degli Ic è un brand, nel senso che hanno utilizzato Confucio come nome più facile per affermarsi dal 2004 in poi: è stato un espediente retorico, commerciale. Se avessero creato gli Istituti Mao, per esempio, non avrebbero avuto nessun effetto”. Il rebranding, commenta il sinologo, “è un’operazione tutto sommato corretta visto che nulla hanno a che fare con il confucianesimo. E il nuovo nome è anche più coerente con le attività dello Hanban nel mondo: la missione primaria è l’insegnamento della lingua e della cultura, in realtà ormai fanno tutta una serie di operazioni sul territorio, che vanno al di là” degli obiettivi iniziali. “Il termine cooperazione copre un settore più ampio e senza limitazioni di livelli. Per questo, il cambiamento del nome è conseguente al trend che gli Ic hanno nelle città in cui si sono incardinati”, aggiunge.

All’assertività diplomatica e militare della Cina di Xi Jinping, diventata ancor più evidente agli occhi occidentali con la crisi Covid-19, corrisponde un’assertività culturale manifestatasi in questa operazione rebranding? Secondo Scarpari, “il nome Confucio è un elemento stabilizzante per i cinesi e per l’occidente, perché è un grande filosofo portatore di principi e valori condivisibili anche da noi. Perderlo è un po’ un peccato per la strategia cinese. Credo ci sia un restyling di una serie di elementi, visto il diverso posizionamento che la Cina assume mese dopo mese, anno dopo anno”. Per questo Pechino, aggiunge il sinologo, “cerca termini più adeguati: cooperazione è un termine non assertivo ma molto positivo, che rispecchia molto le ambizioni proposte dai cinesi di cooperazione win-win”.

IL DIBATTITO IN ITALIA…

Dopo il caso belga e le tensioni tra il regime di Pechino e gli attivisti pro democrazia a Hong Kong, il professor Scarpari lanciò, nel dicembre scorso, un appello alla chiusura degli Istituti Confucio nelle università italiane dalle pagine de La Lettura del Corriere della Sera. Il dibattito nacque da una lettera, pubblicata al sito del giornale diretto da Luciano Fontana, a firma di Stefania Stafutti, professore ordinario di Lingua e letteratura cinese e condirettore di parte italiana dell’Istituto Confucio all’Università di Torino, già direttrice dell’Istituto italiano di cultura a Pechino. La sinologa invitava le autorità cinesi al dialogo con gli studenti di Hong Kong mobilitati per chiedere riforme democratiche nell’ex colonia britannica. “Curiosamente la lettera, pur avendo avuto una discreta audience, non è stata commentata dagli addetti ai lavori”, scriveva Scarpari notando le difficoltà degli accademici italiani a esporsi sugli Ic così come su altri temi “sensibili, “come i campi di rieducazione per i musulmani del Xinjiang o l’inasprirsi di censura e repressione nei più svariati ambiti, che colpiscono anche professori universitari”. “Né ci si pronuncia”, continuava il sinologo, “su questioni che hanno a che fare con la politica del nostro governo, lasciato in balia di improvvisati e/o improbabili ‘esperti’”. 

“Forse è giunta l’ora di liberarsi di paure e condizionamenti nei confronti sia delle istituzioni cinesi sia delle autorità accademiche di entrambi i Paesi”, concludeva Scarpari. “Un buon inizio sarebbe ridimensionare drasticamente il ruolo degli Ic, estrometterli dalle università, rendere incompatibile la figura del condirettore con quella di professore universitario, soprattutto se di area sinologica (…), riportare insomma gli Ic allo status degli altri istituti culturali, salvo poi organizzare attività congiunte nel pieno rispetto delle competenze e delle autonomie di entrambi”.

… DESTINATO A NON MUTARE

Il nuovo nome cambierà qualcosa in Italia? “Mi sembra del tutto ininfluente”, spiega a Formiche.net Scarpari. “Mi sembra non ci sia alcuna volontà da parte delle università che hanno Ic di ripensare di rimodellare il rapporto con lo Hanban. Non mi pare abbiano neppure la forza per poterlo fare: c’è un format stabilito dallo Hanban e non c’è alcun margine di trattativa. La differenza, a livello di singolo istituto, la fa la capacità del direttore italiano di gestire al meglio la situazione del suo istituto, cioè di farsi condizionare il meno possibile e promuovere attività di qualità migliore rispetto a quella proposta di default dai cinesi. È molto nelle sue mani la qualità e l’indipendenza, per quanto possibile”. 

Per capire i legami tra le nostre università e gli Ic basta seguire il denaro. “Non credo che il nuovo nome sortisca alcun ripensamento”, dichiara ancora Scarpari. “Anche perché questi istituti portano soldi e in questo momento in particolare i soldi fanno comodo a tutti, nessuno vi rinuncerà facilmente. Le università che li chiudono lo fanno perché hanno deciso di non volere condizionamenti e che possono fare le loro attività con la Cina indipendentemente e meglio di quanto lo facciano attraverso gli Ic. Ma sono decisioni prese in nome delle libertà, a partire da quella di opinione: temi che non mi sembra ci siano nel dibattito italiano”, conclude il sinologo.

Così Pechino prova a rifare il look agli Istituti Confucio

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