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Nell’ultimo periodo siamo passati da una vita socioeconomica esagitata a una stasi totale. Cosa abbiamo appreso da questa esperienza inedita? Qualche tempo fa Kennet Building, uno dei padri della teoria generale dei sistemi, commentando la società opulenta, disse: “Chi crede possibile la crescita infinita in un mondo finito, o è un pazzo o è un economista”. E Serge Latouche aggiunse: “Il dramma è che ormai siamo tutti più o meno economisti. Dove stiamo andando? Dritti contro un muro. Siamo a bordo di un bolide senza pilota, senza marcia indietro e senza freni, che sta andando a fracassarsi contro i limiti del pianeta”. Dopo di che Latouche propose di uscire dalla società dei consumi pianificando una decrescita progressiva e serena.

Quella marcia indietro e quei freni che la cultura neoliberista ha rifiutato caparbiamente di usare, ora li ha azionati la natura. “Quando la marea si abbassa, chi nuota nudo viene allo scoperto” ha detto Warren Buffet. Insieme agli economisti devoti del laissez faire, che sbeffeggiarono le tesi di Latouche, oggi sono nudi anche i politici, loro asserviti esecutori, parimenti impreparati a recuperare il ruolo dello Stato, svenduto pezzo per pezzo alla logica del mercato e ridotto a semplice optional. Le Regioni, nonostante la loro sperimentata e rissosa inconsistenza, tuttora scalpitano pretendendo ulteriori livelli di autonomia. Ogni conato di spending review ha offerto al capitalismo il pretesto per sottrarre finanziamenti al settore pubblico e travasarli nel privato.

Contestualmente, la legittima lotta di classe dei poveri contro i ricchi – che aveva fruttato la riforma sanitaria e lo statuto dei lavoratori – è stata soffocata da una lotta forsennata dei ricchi contro i poveri che ha mortificato scuola, sanità, lavoro e diritti. Il fenomeno non è stato solo italiano e lo stesso Buffet poté sancire trionfalmente sul New York Times del 26 novembre 2006: “Certo che c’è la guerra di classe. Ma è la mia classe, siamo noi ricchi che la stiamo facendo, e la stiamo vincendo”. Oggi il ritmo frenetico della produzione, l’andirivieni compulsivo tra la fabbrica per produrre e il centro commerciale per comprare, è ferma come per incantesimo. Non è stata bloccata da ondate rivoluzionarie, da ideologie sovvertitrici, da sindacati combattivi, ma da un virus silenzioso e invisibile che un pipistrello cinese ha soffiato sulla società opulenta, costringendola a ripensarsi.

Intellettuali, partiti e sindacati di sinistra avevano smesso da tempo di riflettere, avevano smantellato i loro pensatoi e le loro scuole, avevano rinunciato a ogni funzione pedagogica, si erano arresi alla “fine della storia”. Ora, di fronte alla lezione impartita dal pipistrello cinese, sono anch’essi sguarniti come i “compagni di merenda” che mestano alla loro destra, non sanno come decodificare lo sconquasso e cosa fare quando si sarà placato. Per ora sono in quarantena non solo i corpi dei contagiati, ma anche i pensieri della politica. Tuttavia qualche riflessione comincia a emergere. Benché popoli e governanti, quasi per riflesso condizionato, tendano a rinchiudersi nei propri confini nazionali, l’innegabile globalità del fenomeno virale spazza via ogni velleità sovranista.

L’annaspare confuso e dissonante dei poteri mette in evidenza la necessità che lo Stato prevalga sulle regioni e l’Europa prevalga sugli Stati. L’efficienza delle strutture sanitarie pubbliche e la competente generosità del personale che le gestisce dimostrano che, nei momenti di bisogno, non è il privato che ci salva. Il paragone con gli Stati Uniti, dove un tampone costa 1.200 euro e 90 milioni di cittadini, privi di assicurazioni sanitarie, rischiano l’ecatombe, esibisce la superiorità del welfare socialdemocratico sul cinismo del mercato neoliberista. Sono queste le prime lezioni impartite in questo grande seminario formativo che il coronavirus ha imposto a 60 milioni di italiani. Ma il percorso didattico non è che all’inizio.

Perché il coronavirus costringerà la società a ripensarsi. L'analisi di De Masi

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