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In Italia non mi sembra sia stato sollevato il tema della political economy del coronavirus. La political economy è un ramo interdisciplinare delle scienze sociali che studia l’interazione tra individui (ed imprese), il governo e le politiche pubbliche. Curiosamente, giovedì 27 febbraio, il New York Times ha dedicato l’apertura di prima pagina ad un articolo analitico di Ross Douthat (Coronavirus is a deaside and a test) e la Bruegel newsletter ad una apertura di André Sapin (The Prognosis) ad argomenti relativi alla political economy del coronavirus. Due articoli molto diversi ma ambedue imperniati sulla capacità dell’integrazione economica internazionale di reggere alla crisi del coronavirus, specialmente se l’epidemia diventa una pandemia.

Non è questa la sede per riassumerli. Tuttavia Douthat and Sapin hanno stimolato riflessioni sulla political economy del coronavirus relative non solo alla tenuta dell’integrazione economica internazionale ma anche e soprattutto ai Paesi dove il contagio è stato maggiore. In primo luogo, la Cina che per oltre un mese ha negato l’esistenza del virus ed ha poi dovuto ricorrere a misure estreme quali la creazione di un lazzaretto di circa 60 milioni di persone, ossia grande come l’Italia. Si sa che in Cina vige un sistema dittatoriale inerentemente fragile, come lo sono tutti i sistemi dittatoriali.

La crisi del coronavirus potrebbe, nell’ipotesi minimale, accelerare il cambiamento del gruppo dirigente o, nell’ipotesi massima, iniziare una dissoluzione del Celeste Impero simile a quella che trenta anni fa ebbe luogo nell’Urss, anche in quanto – a quel che si sa – sono in corso forti tensioni tra alcune province e Pechino. Ed è difficile fare previsioni, ma c’è da ritenere che dopo l’esperienza, e la cattiva gestione, del coronavirus ci saranno cambiamenti importanti in Cina, anche in quanto le catene di produzione (e del valore) sono state spezzate.

In secondo luogo, l’Italia, il Paese europeo con i più forti focolai di coronavirus. Ed è arduo dire che il governo abbia superato bene il test (per utilizzare il lessico di Douthat). In una prima fase, ha minimizzato e non ha preso sul serio le proposte dei presidenti delle Regioni del Nord. In una seconda, ha adottato misure tanto drastiche da seminare il panico e che colpiscono severamente la parte più produttiva del Paese. Non sono mancati conflitti con le autorità regionali. Il governo ben sa di avere con sé una risicata maggioranza parlamentare ma di non avere con sé la maggioranza del Paese. Il coronavirus probabilmente accelererà ed approfondirà la recessione già in atto. Le recessioni non fanno mai bene ai governi in carica. L’attuale farà di tutto per evitare elezioni. Ma la frattura con “il Paese reale” (come lo si chiamava un tempo) rischia di aggravarsi.

In terzo luogo, l’integrazione economica internazionale, argomento centrale delle riflessioni di Douthat e di Sapin. Ed è già in difficoltà per le tensioni tra integrazione nazionale ed integrazione internazionale (di cui ho trattato pochi mesi fa su Formiche mensile). Il coronavirus aumenta queste difficoltà ed è stimolo a nazionalismi e sovranismi (nei loro aspetti positivi e negativi). La stessa Unione europea (Ue) viene messa alla prova.

Auspico che Formiche.net apra un dibattito su questi temi.

Vi spiego la political economy del coronavirus. Il commento di Pennisi

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