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Sono in molti a remare contro. Tanto in Italia che all’estero. A sperare che alla fine i soldi promessi si ridurranno o saranno erogati con un ritardo tale da ridurne al minimo l’impatto positivo. Lo fanno un po’ per partito preso ed un po’ nella speranza di costruire, su un disastro ancora maggiore, una possibile carriera politica. All’insegna del grido “l’avevamo detto”. Non sarebbe né la prima, né l’ultima volta che questo accade. Ciò che i Paesi frugali – Olanda, Austria, Danimarca e Svezia – e quelli del gruppo Visegrad – Polonia, Repubblica ceca, Ungheria e Slovacchia – non hanno capito è la portata della posta in gioco. Non si sta discutendo, in Europa, di virtù e nefandezze. Le prime appannaggio degli “elevati”, le seconde di irriducibili questuanti. Ciò che è in gioco è l’Europa stessa. Il suo possibile destino.

La diffusione della pandemia ha prodotto uno shock simmetrico, che non ha investito solo i Paesi del vecchio continente. Ma il mondo intero. La ripresa, quella che ci sarà, non sarà pertanto uniforme. Dalla capacità di ciascuna grande area monetaria – ed all’interno di questa di ciascun Paese – dipenderà la nuova geografia del futuro. Una mappa in cui nulla può essere scontato. Forse ci sarà più Cina e meno America. Forse la Russia di Putin riuscirà a recuperare parte del terreno perso con il crollo dell’Urss. Nessuno è in grado di prevederlo. Unica certezza: il rischio che corre l’Unione europea, in uno spiazzamento non solo competitivo, ma soprattutto politico, destinato a generare fenomeni di irrilevanza.

Nelle élite politiche più responsabili, questa consapevolezza è maturata lentamente. Angela Merkel che dapprima liscia il pelo ai rigorosi e che all’improvviso cambia idea, allineandosi alle posizioni di Emmanuel Macron. L’improvviso superamento di antichi tabù: dalla messa in mora del Patto di stabilità, alle nuove regole sugli aiuti di Stato. Fino alla possibile nascita degli eurobond, seppure con un altro nome. L’impegno della Bce, dopo le infelici uscite di Christine Lagarde, duramente punite dai mercati. Sono state scelte maturate nella consapevolezza che Annibale poteva essere alle porte. Certo non subito, ma nemmeno in quel lungo periodo, tanto irriso da John Maynard Keynes. Perché la crisi è accelerazione dei processi. Ed in questa accelerazione, le risposte non possono aspettare.

Se questo è il quadro non ha senso, specie in Italia, lavorare per il tanto peggio, tanto meglio. Sarebbe come segare l’esile ramo su cui è seduta tutta la società italiana. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, se ne rende conto e convoca gli Stati generali. Ci poteva anche stare, se avesse avuto un progetto ed una strategia da illustrare. Per mobilitare l’intero Paese, per il tramite dei suoi corpi intermedi, verso obiettivi precisi, in grado di rispondere alla specificità della crisi italiana. Sì specificità: non si può dimenticare che l’Italia era in crisi ancor prima che il Covid-19 facesse la sua comparsa. Che da anni il suo più triste primato era quello di essere l’ultima ruota del carro dell’intero mondo Ocse – quindi non solo europeo – quanto a crescita economica e benessere condiviso.

Tutto ciò, purtroppo non c’è stato. Sostituito da un “teatro”, come direbbe Camilleri per bocca del Commissario Montalbano, in cui si parla di “reiventare l’Italia”. Come se fossimo ancora in un reality show a la “Grande fratello”. Né quel ruolo di guida e di sintesi politica poteva essere affidato a qualche “mente brillante” o gruppo di esperti. Che sono utili, anzi indispensabili, una volta individuata la strategia da seguire. Ma non sono certo loro che possono sostituirsi alla politica, come sempre è stato nella storia del nostro Paese. Nell’immediato dopo guerra, l’apertura degli scambi fu voluta da Ugo La Malfa e Carlo Sforza, contro le divisioni in seno alla Confindustria. Palmiro Togliatti scelse la via della “democrazia progressiva”, nonostante l’ostilità della Terza Internazionale. Mentre l’idea di “un progresso senza avventure” fu il mainstream che guidò la Dc da De Gasperi in poi.

La verità è che tutto questo non è nelle corde di Giuseppe Conte. Un’esperienza politica non solo recente, ma fortuita. Un’ascesa “resistibile”, nata per mediare un conflitto latente tra i due leader dell’alleanza gialloverde, che si contendevano la leadership. Matteo Salvini da un lato e Luigi Di Maio dall’altro. Quindi più che una presidenza del Consiglio, nello spirito dell’articolo 95 della Costituzione, un luogo permanete di mediazione tra i due azionisti di maggioranza. Ruolo che all’inizio non era cambiato: quando la Lega fu sostituita dal Pd e da Leu. Poi la pandemia e la necessità di una centralizzazione del comando, per far fronte ad un’emergenza senza precedenti.

Lì c’è stato un cambiamento di ruolo. Una sorta di emancipazione del presidente del Consiglio che ha gettato alle ortiche la toga di avvocato, per assumere un piglio più proprio, rispetto alla carica ricoperta. Un salto di qualità che non è passato inosservato, specialmente tra i 5 Stelle, alimentando interrogativi e sospetti. La contrapposizione oggi tra Alessandro Di Battista e Davide Casaleggio da un lato e Beppe Grillo dall’altro. Metamorfosi di un giurista. Positiva ma non sufficiente per far nascere quel leader politico che serve oggi all’Italia. Che non ha bisogno di metafore letterarie, ma di ritrovare il filo rosso di quella lunga tradizione che, negli anni passati, le ha consentita di essere comunque protagonista.

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