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Nelle scorse settimane, stimolato da autorevoli interventi in particolare del Presidente Prodi, si è acceso il dibattito sul ruolo dello Stato nell’economia in periodi di profonda crisi, come quella in corso, con diverse idee e proposte avanzate da più parti: l’obiettivo è puntare su forme più o meno durature e variamente invasive di intervento dello Stato nel capitale di debito o di rischio delle imprese e con la polarizzazione tra la tesi secondo cui lo Stato deve mantenere la sola funzione di regolatore del mercato e quella che invece propende per una sua partecipazione diretta non solo al capitale, ma anche alla governance delle imprese.

Il dibattito ha avuto un primo punto di arrivo con la pubblicazione del c.d. Decreto Rilancio (DL n. 34/2020) che prevede alcune misure finalizzate a introdurre agevolazioni e fondi (si pensi al “Fondo Patrimonio Pmi” e al “Patrimonio destinato Rilancio”) per sostenere attraverso l’intervento pubblico la patrimonializzazione delle imprese piccole medie e grandi, ricorrendo ad esempio alla sottoscrizione di aumenti di capitale, strumenti finanziari partecipativi, prestiti obbligazionari convertibili, all’acquisto di azioni quotate sul mercato secondario ecc.

Senza volere entrare nel merito di queste novità legislative, che per essere efficaci avranno comunque bisogno di tempo e di diversi provvedimenti regolamentari e amministrativi, né affrontare il tema dell’efficacia anti crisi che possono avere le politiche keynesiane, tornate inaspettatamente alla ribalta dopo decenni di doverosa austerity invocata dall’Ue e praticata dai governi, intendo avanzare una proposta alternativa e credo facilmente attuabile in tema di intervento pubblico, che punti sulle Reti di imprese.

Come ho scritto sul Sole24Ore il 9 aprile scorso, le Reti di impresa, su cui l’Italia ha definito una legislazione specifica ed unica al mondo, in dieci anni hanno raggiunto risultati importanti, grazie alla flessibilità dello strumento che preserva autonomia e identità delle aziende coinvolte: ad oggi 6.106 contratti di Rete aggregano 36mila imprese di ogni dimensione, area geografica e settore.

Nell’attuale dibattito, questo flessibile modello di organizzazione collaborativa potrebbe consentire allo Stato di porsi “accanto alle imprese” – anziché al loro interno – per supportarne lo sviluppo.

Le Reti di impresa possono infatti consentire l’iniezione di capitale pubblico nell’iniziativa economica privata in maniera meno invasiva rispetto a ipotesi di partecipazione azionaria diretta, ma egualmente efficace a sostegno di progetti imprenditoriali strategici nell’ambito delle principali filiere produttive nazionali, anche al fine di avviare processi di riorganizzazione e di trasformazione digitale e sostenibile ormai ineludibili per rimanere competitivi nel post-Covid e per favorire iniziative di re-shoring.

Con le Reti si possono accorciare le filiere Made in Italy con l’effetto di avere pochi interlocutori, organizzati e qualificati a rappresentare un indotto di piccoli e piccolissimi fornitori, per meglio gestire la relazione con le imprese committenti e con clienti internazionali.

Lo Stato può intervenire attraverso la piattaforma di Cassa Depositi e Prestiti (ad esempio con Fintecna) o altro veicolo societario quale partner finanziatore di Reti di imprese costruite per favorire progetti di investimento industriale, secondo il modello di partenariato pubblico-privato già sperimentato con successo con la programmazione negoziata. Ne è un esempio Toscana Pharma Valley, la Rete nata con il supporto di RetImpresa per aggregare alcune multinazionali e medie imprese italiane del settore Pharma per realizzare un Hub logistico-distributivo 4.0, cofinanziato da Mise e Regione Toscana, al servizio dell’industria delle scienze della vita e del tessuto economico locale.

La proposta darebbe vita a un innovativo intervento dello Stato nei progetti di filiera – orizzontale o verticale – di interesse nazionale: una via alternativa sia al co-finanziamento esterno sia all’ingresso diretto nel capitale delle imprese, con il soggetto pubblico partecipante alla Rete, al pari delle imprese private, e promotore di attività finanziarie a sostegno del programma imprenditoriale condiviso.

Le modalità e le condizioni dell’ingresso delle società pubbliche in Rete sarebbero negoziate di volta in volta con la filiera interessata o, meglio, con l’impresa capofila sulla base delle specificità del piano di investimento da realizzare e dei relativi tempi e condizioni, coerentemente con le linee di indirizzo dello Stato.

Le grandi e medie imprese italiane svolgerebbero un ruolo leader nel percorso, perché è attorno alle fabbriche che vanno costruite connessioni, alleanze, condivisioni di piattaforme collaborative, di competenze e risorse umane e materiali. Il soggetto pubblico contribuirebbe alle decisioni strategiche sugli obiettivi del piano di rilancio e sull’impiego dell’investimento, senza entrare nell’executive board della rete e, quindi, nella gestione dei progetti.

Questo nuovo modello garantirebbe massima trasparenza e vigilanza sull’impiego delle risorse pubbliche e un supporto concreto ai fini del superamento di lentezze e ostacoli burocratici alla realizzazione degli investimenti, attraverso specifiche semplificazioni amministrative e fast track.

Start-up e Pmi innovative potrebbero essere coinvolte per dare slancio agli obiettivi di digital transformation e sostenibilità. E ciò sfruttando il meccanismo previsto dalla legge per i contratti di rete, che impone di fissare preventivamente obiettivi strategici e criteri di misurazione degli stessi e di adottare sistemi di monitoraggio delle performance di Rete, su cui il partner pubblico eserciterebbe il ruolo di accountability.

Per completare il quadro, alla proposta andrebbero accompagnate misure di rafforzamento dell’accesso delle imprese in Rete al credito, attivando una “sezione speciale Reti di imprese” del Fondo di Garanzia per le Pmi a copertura di operazioni e portafogli di finanziamento, su cui potrebbe intervenire anche Cdp con proprie risorse dedicate, e una legislazione fiscale di vantaggio a sostegno della capacità di investimento dei network di filiera, vincolando ad esempio la destinazione dell’utile di impresa a nuovi investimenti nella Rete. Esisteva già alcuni anni fa una norma che consentiva di sospendere la tassazione sugli utili delle imprese reinvestiti nei programmi di Rete e che potrebbe essere riattivata per consentire alle imprese di reimmettere risorse economiche nel circuito produttivo nel breve-medio termine, stimolando piani di investimento congiunti.

Un’ultima riflessione sugli effetti della pandemia: la mancanza di mascherine, di reagenti biochimici per fare tamponi e test sierologici e di altri beni sanitari rende opportuno ripensare il processo più deleterio della globalizzazione, cioè la concentrazione nell’Est asiatico di gran parte della manifattura mondiale per sfruttare il massimo ribasso dei costi (fino a 9 mesi fa le Asl compravano mascherine chirurgiche a 0,08 euro), a scapito anche dell’industria del nostro Paese. L’attuale crisi può trasformarsi in un’opportunità per le aziende Italiane solo se saranno supportate per fare re-shoring di capacità manifatturiere di sicurezza nazionale in tutti i settori. E le Reti di imprese sono un alleato importante di questa rivoluzione in favore del ritorno alla manifattura e dell’attrazione di investimenti esteri.

 

L’economia ai tempi del Coronavirus. Lo Stato partner nelle reti di filiera

Di Fabrizio Landi

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