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Che cosa accadrà al petrolio viste le tensioni tra Stati Uniti e Iran? Che cosa può portare a un rally di prezzi se non i raid missilistici iraniani sulle forze statunitensi di stanza in Iraq? A chiederselo sono il Financial Times e diversi altri giornali finanziari. Non c’è un rischio imminente di collasso, scrive il quotidiano della City nella rubrica Market Questions rispondendo alla prima domanda per la settimana che verrà.

Ma basta arrivare al secondo quesito della rubrica settimanale per trovare il più ampio contesto internazionale all’interno del quale si colloca la sfida tra Washington e Teheran. La firma, attesa per mercoledì alla Casa Bianca, della fase uno dell’accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina. Scrive il Financial Times: “La Cina, che lo scorso mese ha tenuto esercitazioni navali congiunte con Iran e Russia, ora è il principale importante di petrolio iraniano e ha invitato gli Stati Uniti a non esacerbare le tensioni in Medio Oriente”. Ma se il presidente statunitense Donald Trump ha dichiarato di non volere un’escalation, i Pasdaran hanno giurato vendetta “sradicando gli Stati Uniti dalla regione”. Di conseguenza, nota il quotidiano, “con i firmatari dell’accordo commerciale ora si fronti opposti dello scenario geopolitico, la firma di mercoledì appare più impegnativa che mai”.

Anche S&P Global Platts torna sull’accordo tra Washington e Pechino con un occhio alle ripercussioni su Teheran parlando delle complicazioni legate alle nuove sanzioni imposte dall’amministrazione Trump sull’Iran. Secondo le stime di Platts, le esportazioni iraniane di greggio verso la Cina erano pari, in media, a circa 225.000 barili al giorno nella seconda metà del 2019; nei sei mesi precedenti erano 400.000. Una riduzione forte, ma non quell’azzeramento di cui ha parlato il segretario al Tesoro americano Steven Mnuchin minimizzando la questione venerdì in conferenza stampa.

Il segretario si è però anche soffermato sugli sforzi degli Stati Uniti, della Cina e di altri acquirenti di petrolio iraniano nella lotta alle esportazioni illegali operate dal regime. “Stiamo parlando con la Cina, così come con qualsiasi altra controparte, circa l’evasione delle sanzioni”, ha affermato il segretario Mnuchin.

L’asse Iran-Cina è forte, basti pensare a una rivelazione della Reuters di alcuni hanno fa: Teheran usa banche cinesi per trasferire fondi alle aziende collegate alle forze Quds, quelle che erano guidate dal generale pasdaran Qassem Soleimani. Ma è forte sopratutto quando si parla di petrolio. Nel round di sanzioni contro l’Iran decise a settembre, il Tesoro degli Stati Uniti ha inserito sei gruppi cinesi (di cui due consociate del colosso logistico Cosco) e i loro dirigenti per aver violato i divieti Usa acquistando petrolio dal regime. La stessa decisione e per la medesima ragione era stata presa a luglio contro la società statale cinese Zhuhai Zhenrong. Inoltre, anche nel round di venerdì, questa volta con obiettivo il settore metallurgico iraniano, compaiono gruppi del Dragone.

In questa fase però la Cina appare così concentrata sulla fondamentale firma di mercoledì da aver scelto di non spingere troppo sull’Iran limitandosi a qualche dichiarazione netta ma non troppo convinta. Ecco perché Washington difficilmente cambierà linea rispetto a quella espressa da Brian Hook, rappresentante speciale del dipartimento di Stato Usa per l’Iran, durante un’intervista a Platts a novembre: gli Stati Uniti non allenteranno la pressione sull’Iran e sul suo greggio, neppure in cambio di qualche concessione da parte della Cina sugli accordi commerciali, aveva annunciato ben prima dell’uccisione del generale Soleimani, del raid iraniano e dell’abbattimento del volo PS752. Ecco perché l’Iran, in questo delicato momento, rischia di non poter fare troppo affidamento neppure sull’alleato cinese.

Se la Cina sacrifica l’Iran per il deal commerciale con gli Usa

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