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Dopo oltre un anno di stallo politico e tre tornate elettorali senza un chiaro vincitore, Israele ha un nuovo governo, sostenuto dal Likud, il partito del premier Benjamin Netanyahu, e dal partito centrista Blu e bianco di Benny Gantz, che fra un anno e mezzo dovrebbe sostituirlo alla guida dell’esecutivo.

È il governo più numeroso della storia del Paese: 34 ministri. È nuovo, perché appena nato. Ma non nuovo nel senso di un cambiamento di approccio. È quanto sostiene parlando con Formiche.net Anshel Pfeffer, giornalista anglo-israeliano del quotidiano di sinistra Haaretz e corrispondente dell’Economist. “Non vedo perché dovrebbe cambiare l’approccio del governo di Israele verso gli Stati Uniti e pure verso l’Iran”, dice un po’ sorpreso Pfeffer. “D’altronde il premier è sempre Netanyahu”.

E Gantz allora? Il nuovo governo rappresenta “una vittoria” per lui, dice Caroline Glick, editorialista del Jerusalem Post e già candidata nel 2019 alla Knesset per la formazione di destra HaYamin HeHadash), a Formiche.net. “Dopo la decisione di unirsi a Netanyahu anche a costo di spaccare il suo partito Blu e bianco, se fossimo andati per la quarta volta alle elezioni, lui sarebbe stato spazzato via come politico e il suo partito si sarebbe stato sciolto”, continua. Ora, invece è “il secondo leader più potente in Israele. Anche se per qualsiasi motivo il governo cadrà e non sostituirà Netanyahu, rimarrà un influente politico nel prossimo futuro”.

Sull’asse Gerusalemme-Washington la scommessa di Netanyahu è evidente, basti pensare al tema dell’annessione della Cisgiordania di cui ha parlato poche ore fa il nuovo ministro degli Esteri israeliano, Gabi Ashkenazi, ex capo di Stato maggiore generale e deputato di Blu e Bianco. Il piano di pace di Donald Trump è  “un’opportunità storica” per Israele, ha detto il nuovo capo della diplomazia di Gerusalemme esprimendo supporto all’iniziativa dell’amministrazione statunitense.

Glick sottolinea i rapporti di Blu e bianco, che lei definisce “un partito di sinistra”, negli Stati Uniti: ha “forti legami e dipendenze dai democratici” statunitensi. Per questo, “è probabile che provino a complicare le relazioni. Ma alla fine, non saranno in grado di minare le grandi imprese tra Stati Uniti e Israele che sono favorite da Trump e Netanyahu”. A dimostrazione della scommessa del premier israeliano ma anche del presidente statunitense. 

Tutto potrebbe cambiare, però, secondo Glick in caso di vittoria a novembre del democratico Joe Biden. Gli Stati Uniti cambierebbero completamente atteggiamento verso Israele, tanto che neppure Blu e bianco “potrà proteggere” lo Stato ebraico “da un Partito democratico che gli è sempre più ostile”.

Il ruolo della Cina in Israele, la sicurezza regionale in Medio Oriente, il contrasto all’Iran e la lotta congiunta al coronavirus sono stati i temi principali discussi la scorsa settimana dal segretario di Stato statunitense, Mike Pompeo, durante la sua visita di poche ore a Gerusalemme. Come raccontato dall’Agenzia Nova, il capo della diplomazia di Washington ha incontrato alla vigilia del giuramento del nuovo esecutivo sia il primo ministro uscente, Benjamin Netanyahu, che i nuovi ministri della Difesa e degli Esteri, Benny Gantz e Gabi Ashkenazi.

“Non conosciamo le ragioni di questa scelta da parte di Pompeo di venire in persona per una breve visita di appena nove ore”, spiega Pfeiffer. “Molto però sembra dipendere anche da ragioni politiche. Pompeo vuole essere percepito in molti circoli repubblicani negli Stati Uniti come amico di Israele per posizionarsi in vista di una campagna presidenziale nel 2024. E questo è dovuto in particolare al fatto che Netanyahu è molto ben visto dai membri del Partito repubblicano”. 

“Sembra che Pompeo avesse due ragioni per venire in Israele la scorsa settimana. La prima: fare pressioni su Israele affinché non firmasse un accordo con una società cinese per la costruzione un impianto di desalinizzazione ad Ashdod. Il secondo: formalizzare la cooperazione nello sviluppo di trattamenti e vaccini contro il coronavirus”, spiega Glick. Il primo obiettivo sembra essere stato raggiunto, visto che, come sottolinea l’editorialista del Jerusalem Post, la cerimonia della firma per l’impianto di Ashdod fissata per il 24 maggio è stata cancellata. E entrambe le ragioni dimostrano quanto Israele sia fondamentale per l’amministrazione Trump nel futuro mondo post coronavirus.

Il nuovo governo di Israele, gli Usa e la Cina. Le opinioni di Glick e Pfeffer

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