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La milizia “Esercito nazionale libico” – nome ambizioso con cui il signore della guerra dell’Est, Khalifa Haftar chiama i suoi uomini – si sta ritirando da alcune posizioni a sud di Tripoli. Il portavoce del gruppo, noto internazionalmente con la sigla Lna, dice che si tratta di una nuova tattica, ma dal governo di accordo nazionale, Gna, le fonti che ieri – dopo la riconquista della super-nevralgica base di Al Watiya – spiegavano che presto sarebbero arrivati altri successi “a sud”, rivendicano che quella ritirata è “frutto dell’avanzata annunciata”.

Le unità militari che dal 4 aprile dello scorso anno difendono Tripoli dall’assalto haftariano hanno avanzato su Tiji, cittadina sulla fascia pedemontana delle montagne Nafusa, spartiacque naturale da cui le forze dell’Est hanno coordinato il fronte sud. In quella zona il centro focale dell’attacco era Gharyan, che però è caduta diversi mesi fa. Haftar è di fatto scoperto, e al di là delle dichiarazioni del suo portavoce, sembra oggettivamente in difficoltà. Da settimane incassa sconfitte una dietro l’altra, e ha grossi problemi sulla catena dei rifornimento – e dunque sul comando.

Gli sponsor esterni – Emirati Arabi su tutti – hanno spostato nuovi mezzi: lo hanno fatto attraverso l’Egitto e nonostante l’embargo Onu, che teoricamente da una dozzina di giorni è protetto da “Irini”, la missione dell’Unione europea per controllare le acque libiche che recentemente s’è portata dietro le critiche del leader del Consiglio presidenziale, il premier onusiano di Tripoli, Fayez Serraj (la missione viene considerata sbilanciata verso Haftar, perché dovrebbe chiudere le rotte marittime e non quelle via aerea/terra che usano i suoi partner per fargli arrivare i rinforzi).

Il problema per Haftar è proprio l’approvvigionanti interno. Le sue milizie – rinforzate da diversi gruppi di mercenari diversi – combattono a centinai di chilometri dal suo (teorico, quanto problematico) heartland, e in questo momento i rinforzi non riescono ad arrivare in Tripolitania. I convogli sono pesantemente martellati dalla Turchia, attore che si è inserito nel conflitto libico usando gli spazi che l’Unione europea e gli Stati Uniti hanno lasciato vuoti dietro Serraj e Tripoli.

Senza armi la guerra non procede, e Haftar sceglie la forma della ritirata (tattica o meno). Serve anche a salvare la faccia, perché come accennato il problema dietro al capo miliziano è anche la tenuta nel suo territorio. Il conflitto doveva essere rapido, prometteva ai suoi uomini di prendere Tripoli in un lampo, e invece è più di un anno che il fronte è fermo. Ora che la resilienza delle unità di Tripoli e Misurata s’è trasformata in trazione controffensiva – grazie alla protezione aerea turca – in Cirenaica sono iniziati i problemi.

Le famiglie piangono i figli morti, e non hanno ricevuto nemmeno i corpi dei caduti in Tripolitania (probabilmente sepolti in loco, in fosse comuni). L’appoggio politico dietro a Haftar vacilla, il miliziano offre un modello dittatoriale che i libici hanno respinto nel 2011: nessuno vuole un altro rais, e la mossa propagandistica con cui il 27 aprile ha dichiarato decaduto il sistema di negoziato costruito negli anni dalle Nazioni Unite è stato un all-in da pokerista che s’è rivelato un bluff, visto le nuove sconfitte sul campo.

Non a caso alcuni degli attori che dall’esterno lo hanno da sempre sostenuto più o meno apertamente, come l’Egitto, la Russia e in parte la Francia, stanno rimodellando il loro coinvolgimento. Mosca per esempio è da giorni nell’occhio del ciclone perché un nuovo report delle Nazioni Unite ha scritto nero su bianco che ci sono contractor militari russi – della società Wagner, in continuità col Cremlino – che hanno sostenuto (sostengono?) Haftar come consiglieri militari (personale preparato che in alcune fasi iniziali del conflitto ha svolto anche ruoli attivi al fronte). Inoltre i russi sono accusati di aver mobilitato in Siria miliziani assadisti, e tutto ha creato preoccupazione all’interno del blocco occidentale – tra Europa e Stati Uniti, e dunque Nato. Nato che tra l’altro smebra meno preoccupata da quanto di simile attivato dalla Turchia sul lato di Tripoli (ma d’altronde Ankara è parte dell’alleanza e in una nuova fase di avvicinamento).

Oggi il ministro degli Esteri italiano, Luigi di Maio, ha avuto un colloquio con l’omologo russo, Sergei Lavrov, e si è parlato di Libia. Centralità del dossier per l’Italia e necessità di lavoro sinergico per mettere fine al conflitto, sono stati questi i temi del colloquio secondo la Farnesina. Termini molto generali che però testimoniano che Roma ha effettivamente rimesso mano al tema – che, come detto più volte, per la politica estera italiana è un test sulla capacità generale di proiettare all’esterno i propri interessi. Forse per l’allentamento della crisi epidemica, forse per una spronata ricevuta dal governo di Tripoli – con uscite pubbliche come quella del vicepremier Ahmed Maiteeg, che nei giorni scorsi, dalle colonne di Repubblica ha chiesto al governo italiano di ravvivare il proprio coinvolgimento.

Forse perché il momento è cruciale. Le sconfitte territoriali stanno dimostrato che Haftar non è né la soluzione politica (alla quale non è mai stato interessato) né quella militare. Anche per questo Roma, che ha sempre considerato il miliziano un interlocutore (nonostante questo non perdesse occasione per dimostrare ostilità all’Italia), starebbe scegliendo una nuova strada. Fermo restando il colloquio intra-libico, in Cirenaica gli italiani stanno cercando di costruire un percorso alternativo, includendo soprattutto l’Egitto, sponsor che ormai è piuttosto stanco della scarsa potabilità futura di Haftar e dell’inefficienza dimostrata finora.

La figura di contatto è Agila Saleh, presidente del Parlamento libico, parte della road map studiata dall’Onu nel 2015, che per anni ha protetto politicamente Haftar, ma ora avrebbe in mente un percorso alternativa e negoziale, tramite un contatto con la linea più moderata dei politici della Tripolitania. Saleh ha un problema pratico – l’età – e uno storico – è stato per troppo tempo collegato ad Haftar e in Tripolitania non si fidano di lui, spiegano fonti dal Gna. Però appartiene a una famiglia rispettata e ascoltata, e inoltre ha ottime relazioni con la Russia e pure con l’Arabia Saudita (lato intelligence). Potrebbe essere interessato a strade di contatto, processi che vanno oltre le dichiarazioni di facciata, ma che forse è arrivato il momento perché siano spinti. Fermo restando che i più attivi degli attori esterni ne siano realmente interessati e smettano di spingere l’acceleratore della guerra.

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