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Un ritiro dei militari italiani dall’Iraq? Sì, così da riprenderci un nostro pensiero strategico. Un ruolo europeo nella crisi in Medio Oriente? Difficile: all’Unione manca una strategia, e i tempi per definirla non sono compatibili con eventi che si susseguono a ritmo sostenuto. Parola del generale Pasquale Preziosa, già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare e autore del libro La Difesa dell’Europa (Cacucci Editore, 2019) insieme a Dario Velo. Dopo il raid americano a Baghdad, dalle capitali europee è arrivato unanime l’invito a evitare l’escalation. L’impressione è che nel nuovo gioco tra le potenze, l’Europa possa fare ben poco, tra l’altro con i militari italiani (ce ne sono oltre 900 in Iraq) esposti al rischio di escalation. E intanto, dopo aver innalzato le misure di sicurezza, la Difesa italiana ha annunciato la sospensione delle attività di addestramento delle forze irachene.

Generale, su queste colonne, Vittorio Emanuele Parsi ha suggerito di ritirare il contingente in Iraq perché “è inutile restare nelle coalizioni multilaterali se serve solo per le chiacchiere e non per assumere insieme decisioni”. È d’accordo?

Sì. All’Italia serve una politica estera con gli obiettivi che un Paese si dà. Non mi sembra che al momento vi sia alcun pensiero strategico al riguardo. E quando non vi è una chiara risposta sul perché si è fuori area con gli assetti militari, allora è tempo di ritornare sui propri passi ed elaborare una nuova strategia.

Eppure, da più parti del mondo politico italiano si invita l’Europa ad avere un ruolo maggiore per evitare la crisi tra Iran e Stati Uniti. Ma cosa può fare il Vecchio continente?

L’Europa deve prima di tutto mettere a punto, con la nuova Commissione, una strategia per poter essere rilevante nel futuro. Attualmente mancano i lineamenti di una nuova politica strategica dell’Ue. Purtroppo, i tempi per definirli non sono in alcun modo compatibili con gli eventi che si susseguono a ritmo sostenuto e con una geopolitica in fermento in molti teatri.

L’uccisione del generale Soleimani accelera tale ritmo?

Direi di sì. Soleimani era un faro per la politica di difesa iraniana. Il raid ha voluto colpire chiaramente il regime di Teheran. Altre reazioni importanti non si sono ancora registrate. Tra l’altro, l’assenza di dichiarazioni da parte dell’Arabia Saudita significa, per certi versi, supporto all’azione americana, interpretata da Riad come un segnale del rafforzamento del rapporto con Washington. D’altra parte, Soleimani era ritenuto da molti la mente dietro attacco con i droni condotto qualche tempo fa all’Arabia Saudita. La sua uccisione rappresenta un chiaro segnale delle intenzioni della politica americana in questo momento, non solo però con riferimento all’Iran.

Ci spieghi meglio.

Un altro destinatario è il presidente della Corea del Nord Kim Jong-un, autore nei giorni scorsi di dichiarazioni distanti da quello che gli americani si attendevano in tema di denuclearizzazione. Il raid di Baghdad rappresenta una risposta indiretta delle intenzioni Usa in tutti i settori. Il messaggio è chiaro: quando falliscono le negoziazioni, possono mettere in campo strategie diverse in grado di causare gravi perdite nazionali per l’avversario. Tale concetto è stato palesato più volte dagli Stati Uniti, con il ricorso alle due bombe atomiche sul Giappone dopo l’attacco di Pearl Harbor, con l’uccisione di Osama Bin Laden (e del figlio), con l’eliminazione di Abu Bakr al Baghdadi e ora con quella di Soleimani. Un concetto che tra l’altro permette a Trump di lanciarsi verso le prossime elezioni in posizione di forza.

E nel rapporto con una Turchia sempre più assertiva?

La Turchia resta un po’ nel limbo delle sue ambizioni. Andrà avanti grazie al disinteresse americano nell’area, a condizione che non vengano toccati interessi strategici di Washington, tipo Israele, ipotesi che non pare all’orizzonte. Nonostante le frizioni sull’acquisto del sistema russo S-400, Turchia e Stati Uniti sembrano aver trovato un punto di caduta abbastanza tranquillo.

L’azione di Ankara in Libia preoccupa però l’Europa.

Certo. La Turchia sarà il punto nevralgico per il 2020 di quello che potrà accadere in Libia. Il soccorso a Fayez al Serraj impone a noi europei di chiarire cosa e chi stiamo supportando, ma soprattutto il modo in cui sbrogliare una matassa che adesso sembra più complicata di ciò che poteva essere previsto con l’attacco francese che destabilizzò il Paese senza un piano adeguato per la futura stabilità.

Pensa che l’Unione europea abbia la forza per dire qualcosa, dalla Libia all’Iran?

Non vi sono barlumi di decisioni da parte dell’Ue. D’altra parte, per prendere delle decisioni servono intenzioni e parole, ma per le parole occorre avere una bocca e dei denti. Credo che all’Europa manchino proprio i denti per poter esercitare una deterrenza utile ad affermare processo condivisibili, seppur non condivisi da tutti.

Sta dicendo che il tradizionale soft power europeo non basta più all’Europa in un contesto internazionale tanto complesso?

Per un mondo in subbuglio come quello attuale la risposta resta Machiavelli: servono denaro (quindi l’economia) e spada (quindi la forza). Senza la combinazioni di questi due elementi non c’è statualità, non si esprime la sovranità e non si mette in atto alcuna politica. Proprio per questo l’Europa deve decidere, oggi e velocemente, cosa vuole essere in futuro, se rispettare il pensiero onnicomprensivo dei padri fondatori, oppure no. In tal senso, un pilastro militare europeo, all’interno della Nato, potrebbe fare sicuramente bene all’Europa e agli Stati Uniti.

In che modo?

Nonostante il cambiamento epocale della loro strategia verso il Pacifico, gli americani hanno bisogno di alleati. Il mondo corre, e la competizione tra le potenze anche. Ne è esempio il campo della missilistica ipersonica (giusto ieri è uscito un articolo in tema sul New York Times) di cui l’Italia è stata tra i primi a parlarne come game changer degli equilibri mondiali. Russia e Cina già possiedono tale capacità, almeno stando alle loro dichiarazioni, e gli Stati Uniti stanno recuperando solo adesso. Cambiano i termini della deterrenza ed è per questo che serve un pilastro europeo, così da rafforzare le relazioni transatlantiche in nuovi equilibri che non ci sono. Senza l’Europa, per gli Stati Uniti sarà difficile ricostruire un ordine mondiale.

L’Italia ha la forza per promuovere tale ripensamento europeo?

La deve trovare. Il nostro Paese ha una sola possibilità per rilanciare la sua economia e la possibilità di avere una politica estera: trovare il giusto posto che gli spetta nel contesto euro-atlantico. Oggi siamo quasi assenti, anche se restiamo nel G7 e vantiamo un livello tecnologico tra i più avanzati al mondo.

Cosa manca?

Manca un quadro interno più solido rispetto a quello visto negli ultimi anni. La debolezza politica interna si riflette nella debolezza dell’azione esterna. Oggi non riusciamo a fare politica estera. Occorre ripartire sviluppando l’economia e le capacità tecnologiche in un quadro europeo armonico, con la forza di promuovere una ridiscussione delle regole comuni laddove non ci stanno bene.

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