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Dieci anni fa la Germania era un modello, certamente ci sono stati errori interni, ma anche errori esterni come quelli della Commissione europea che ha imboccato una strada cieca di perenne messa in concorrenza, dimenticando che essa non porta automaticamente a più libertà, ma alla nascita di oligopoli. Lo dice a Formiche.net Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation, che analizza le conseguenze dei voti regionali in Francia e Germania scomponendo il dato meramente elettorale e mettendolo a confronto con il quadro socio-economico dei due Paesi. “Non è un caso che la coalizione tedesca sia stata chiamata semaforo, un nome giornalistico che ha rappresentato un continuo stop and go, senza coerenza”.

Francia e Germania, ci sono affinità nelle crisi politiche attuali accompagnate dall’exploit delle destre?

La Turingia è un Land tutto sommato piccolo, per cui eviterei allarmismi esagerati. Non dovremmo considerare la Germania come un Paese dove gli esami non finiscono mai. Piuttosto, in entrambi i casi occorre ricordare che la crisi della democrazia è soprattutto del nord del mondo, dove non c’è Paese in cui non si veda questa crisi di valori a destra o sinistra: si manifesta la crisi della tenuta del tessuto sociale. Trovo inutile stupirsi se questi anni caratterizzati da globalizzazione e da turbocapitalismo, così come lo definì il non certo comunista Edward Luttwak, abbiano prodotto una fortissima frammentazione sociale. I Paesi che se la sono cavata meno peggio sono quelli dove ancora la famiglia, pur lasciata abbastanza sola, è un efficace sostegno sociale, come accade ad esempio in Italia.

Cosa si è rotto?

La solidarietà che va al di là del ridottissimo cerchio familiare di una coppia nucleare con figli. Tale solidità si è rotta, accanto ad una feroce competitività che comprime i diritti dei lavoratori; ciò è evidente oggi, ma ieri le grandi scelte del futuro industriale tedesco erano celebrate come le migliori possibili. Dieci anni fa la Germania era considerata un modello: certamente ci sono stati errori interni, ma anche errori esterni. La Commissione europea, ad esempio, ha imboccato una strada cieca di sistematica messa in concorrenza, dimenticando che essa non porta automaticamente ad un libero mercato, ma alla nascita di oligopoli spesso fuori controllo. Come dimostra il disastro della politica energetica di Bruxelles.

Cosa è accaduto nell’ultimo decennio?

Quando un ceto medio si impoverisce ha paura e, sin dagli anni Venti del secolo scorso, la reazione di un ceto medio impoverito è duplice: qualcuno si butta fra le braccia dell’uomo della provvidenza, altri scelgono la parte comunista ritenendo che sia quella che permette di sfuggire alla condizione di proletariato straccione, elemento che oggi è molto presente nel mondo. Ricordo che oggi abbiamo condizioni di lavoro servili che sono sotto gli occhi di tutti. Francia e Germania non rappresentano una novità come crisi, le abbiamo già viste in Italia, Spagna, Regno Unito, Brasile e negli Usa. La lista è lunga ed è connessa alle economie avanzate.

Quali le differenze sostanziali tra la crisi francese e la crisi tedesca?

Penso alla gestione in sé delle crisi, che spesso non vuole né prendere coscienza né riconoscere il risultato delle urne. Per carità, non è che in Italia noi non abbiamo avuto governi tecnici, ma abbiamo un’altra mano nella gestione di questi passaggi che, evidentemente, viene dalla lunga esperienza di problematica convivenza nella Guerra Fredda. In Germania la crisi del consenso intorno al sistema produttivo è stata gestita con la scelta di rottura di Scholz nel non volere la Cdu nella coalizione, preferendo i Verdi. Non bisognava essere grandi politologi per capire che la vecchia coalizione con i democristiani avrebbe avuto più voti in Parlamento e soprattutto più stabilità. Tuttavia i socialdemocratici hanno voluto segnalare l’uscita dalla condizione d’inferiorità e di difficoltà che hanno subito come partner minori dei governi Merkel. Questo è assolutamente chiaro, ma Scholz ha sottovalutato la pericolosità oggettiva per la sua coalizione del Partito verde che aveva la precisa volontà di sabotare sistematicamente la leadership del cancelliere, perché fiutava il sangue di prossime vittorie alle urne, esattamente come da noi succede quando le elezioni si avvicinano. Noi lo chiamiamo cannibalismo elettorale.

In Francia invece assistiamo ad un tentativo d’ignorare le conseguenze di una vittoria elettorale che ha allontanato lo spettro delle destre, ma ha portato alla ribalta soggetti non graditi all’Eliseo e all’establishment. La presidenza della Repubblica italiana in simili casi è stata democraticamente realista, speriamo avvenga secondo modi propri a Parigi.

Cosa non ha funzionato?

I tedeschi non sono abituati a questo tipo di politica contorta: farebbero bene a imparare dagli italiani che almeno non hanno situazioni paradossali, come di governi che si privano di centrali nucleari quando sono stati privati del gas a favore del carbone. Siamo davanti al cinismo elettorale più sfrenato, non è più ideologia questa: per cui la virata a sinistra, almeno nelle intenzioni, è finita molto male. E non è un caso che la coalizione sia stata chiamata semaforo, un nome giornalistico che ha rappresentato un continuo stop and go, senza coerenza. Basti vedere le incongruenze della politica di sicurezza riguardo al Medio Oriente dal punto di vista politico, strategico e morale. L’elettorato tedesco non è certamente un elettorato di aspiranti rivoluzionari, però ha bisogno di risposte, esattamente come quelle risposte le chiedevano i gilet gialli francesi. E queste risposte, ci piaccia o no, sono state inevase, anche in Francia.

È patetico citare le magnifiche sorti della liberaldemocrazia quando poi la gente protesta e viene sistematicamente ignorata, quando non viene manganellata. Allora sorge il problema: che fare se il popolo o il demos vota in modo sgradevole? Questo segnale o viene elaborato politicamente oppure viene respinto al mittente, perché alla fine le risposte politiche non sono solo delle risposte comunicative, ma sono delle risposte pratiche a problemi concreti che hanno dei costi.

Per tornare alla Turingia, è giusto che ci sia un senso di vigilanza democratica, ma non è vero, come pelosamente sostengono alcuni, che la Germania è alle soglie della presa di potere hitleriana. Insomma, la risposta delle elezioni regionali è un campanello d’allarme che non va né sopravvalutato, né sottovalutato.

Come influenzerà questa circostanza il rapporto con l’Ue?

Innanzitutto prendiamo atto che la risposta dei Governi e dell’Europarlamento sul rinnovamento dell’Europa è stata una non risposta: questo è un fatto. La nuova triade ai vertici dell’Ue non mi sembra che indichi alcun cambiamento di sostanza geopolitico o politico, come avrebbe indicato la presenza di Draghi.

Un quadro in cui impatta il caso Volkswagen con il rischio di migliaia di licenziamenti.

Anche il modello cinese ha i suoi problemi concreti e tutt’altro che risolti, nonostante la grande forza del sostegno statale. Qualcuno mette sotto accusa i salari tedeschi troppo alti, dimenticandosi che i salari alti sono stati la forza che ha permesso di avere prodotti competitivi e un’industria manifatturiera che resiste, mentre da noi i salari bassi stanno ammazzando il Paese. La Germania si è trovata senz’altro in una congiuntura geopolitica sfavorevole: la tensione creata dalle mosse russe ha portato poi alla detonazione di un conflitto che ha privato la Germania e l’Europa di una fonte energetica a buon mercato. L’intera l’industria europea ha subito un duro colpo, che si è aggiunto alla crisi dei subprime da cui non siamo mai usciti dal 2006. A questo si aggiunga che c’è la diffusa tendenza dei governi ad autoaccecarsi, ben visibile in Europa e nel Mediterraneo.

Come uscire da questa situazione?

Se i governi decidono di ascoltare il cambio di vento politico e perciò di non aspettare passivamente altri successi elettorali sgraditi, devono rispondere alle istanze degli elettori di questi partiti cosiddetti emergenti. Se questi governi decidono di agire diversamente, allora la Commissione europea dovrà modificare le sue politiche, perché tutto quello che succede a Bruxelles, a dispetto della propaganda Brexit, alla fine viene convalidato dall’Europarlamento e dai governi e parlamenti nazionali. Sono segnali molto chiari. Per quanto brutti sporchi e cattivi possono sembrare questi partiti, però dicono apertamente quello che vogliono. Tuttavia, inseguire questi partiti sulla migrazione come successo in dibattiti televisivi in Germania è, come dire, un atteggiamento straordinario, perché il milione di migranti decisi dalla Merkel ha obiettivamente colmato una debolezza demografica tedesca. D’altro canto, quando la gente è impoverita, a quel punto il feticcio dell’identità nazionale diventa molto importante, perché diventa una sorta di endorfina di compensazione. Eppure è storicamente un surrogato che non risolve il problema, perché la migrazione è un fatto secolare. Per cui o si cambiano le politiche demografiche dei Paesi del nord del mondo o questi Paesi sono votati matematicamente all’estinzione.

Germania, da modello a crisi politica? L'analisi di Politi (Ndcf)

“La risposta data dalle elezioni regionali è un campanello d’allarme che non va sopravvalutato. Non è vero che la Germania è alle soglie della presa di potere hitleriana. Ci sono state scelte incomprensibili, in piena crisi energetica, come chiudere le ultime tre centrali nucleari. Trovo inutile stupirsi se questi anni caratterizzati da globalizzazione e da turbocapitalismo, così come lo definì il non certo comunista Erdward Luttwak, abbiano prodotto una fortissima frammentazione sociale”. Conversazione con il direttore della Nato Defense College Foundation, Alessandro Politi

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