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“Certamente Gianfranco Fini: non avrei un secondo di esitazione”. Sono trascorsi esattamente trent’anni da quel 23 novembre 1993 in cui, partito per inaugurare una Standa (più precisamente, l’Euromercato “Shopville Gran Reno”) a Casalecchio di Reno, Silvio Berlusconi finì per inaugurare una nuova stagione politica.

Interrogato su cosa avrebbe votato al ballottaggio delle Comunali (le prime con elezione diretta del sindaco) se fosse stato cittadino romano, il Cavaliere avrebbe fornito al segretario dell’allora Msi molto più che un endorsement: una patente di piena agibilità politica nel contesto della nascitura Seconda Repubblica. Quello che finirà per passare alla Storia come lo “sdoganamento” della destra post-fascista avvenne con queste parole: “Fini è un esponente che ben rappresenta i valori del blocco moderato nei quali io credo”. Eccola, la parolina magica: “moderato”. Quattro sillabe che scioglieranno l’incantesimo di quella conventio ad excludendum sancita nella turbolenta estate del 1960 dalla caduta del governo Tambroni e dai moti di Genova. Quattro sillabe che varranno una fortuna politica, sprecata forse sul piano personale ma – a guardare le cose con il famigerato “senno del poi” – certamente non su quello politico.

E ha voglia oggi Ignazio La Russa a ridimensionare il ruolo del Cavaliere in quel passaggio nodale. “Non è stato Berlusconi a sdoganarci ma la Storia – diceva già nel 2019 l’attuale presidente del Senato – è stata la caduta del Muro di Berlino, senza la quale non avremmo avuto Mani Pulite e quell’attacco alla partitocrazia che prima facevamo soltanto noi della nostra area politica”. Concetto ribadito con ancora maggior enfasi dopo il successo registrato da FdI alle ultime elezioni: “Berlusconi ha avuto il merito di rendere la nostra destra votabile da tutti e creare le condizioni perché gli elettori la sdoganassero – spiegava, in maniera un po’ contorta, in un’intervista concessa lo scorso luglio a Libero – ma il primo merito è dei nostri padri che dopo la Seconda Guerra Mondiale accettarono la democrazia e fondarono il Msi, poi di Alleanza Nazionale che diede alla destra una prospettiva di governo e infine nostro, di Fratelli d’Italia, che abbandonammo il centrodestra quando rischiava di diventare solo l’espressione parlamentare di Silvio”.

Ora, come possa esser riuscito ad auto-sdoganarsi un partito come il Msi che della filiazione diretta con il regime mussoliniano ha sempre fatto un punto d’orgoglio (icastico in tal senso il “non rinnegare e non restaurare”, coniato nel ’48 da Augusto De Marsanich), resta un mistero glorioso. Così come incomprensibili restano le “meccaniche celesti” attraverso le quali il partito di Giorgia Meloni avrebbe sdoganato ex post una destra già ampiamente guadagnata alla causa democratica da vent’anni di partecipazione attiva alla gestione della cosa pubblica, a livello centrale come a livello locale. Ma non perdiamoci in questi dettagli.

23 novembre 1993. Sono trascorse appena quarantott’ore dal primo turno delle amministrative. Nella corsa per il Campidoglio, Gianfranco Fini ha conquistato a sorpresa il secondo turno, dove se la vedrà con il Verde Francesco Rutelli sostenuto da Pds e Lista Pannella. Ci è arrivato dopo aver raccolto uno straordinario 31%, stessa percentuale con la quale – duecento chilometri più a sud – Alessandra Mussolini si è guadagnata l’accesso al ballottaggio contro il futuro ras della Quercia Antonio Bassolino nella sfida delle comunali di Napoli.

Un cognome scomodo, quello della pasionaria missina convertitasi alla politica dopo una discreta carriera cinematografica. Non c’è però pregiudiziale o cognome scomodo che possa impedire alla Fiamma di far incetta di preferenze nei due capoluoghi al voto: al termine dello scrutinio per il primo turno, il Movimento sociale risulterà in entrambe le città il partito più votato con oltre il 30% dei suffragi. Un risultato da coalizione più che da partito singolo, ancor più clamoroso se si pensa che a ottenerlo è una forza politica di derivazione post-fascista.

A favore degli eredi di Almirante giocano due elementi: da un lato la storica “simpatia” degli elettorati capitolino e partenopeo nei confronti del Msi, dall’altro la forte spinta anti-casta di cui i missini – considerati estranei al sistema tangentizio – beneficeranno nel pieno della drammatica stagione di Mani Pulite. Tuttavia, pur in combinato disposto, questi fattori non esauriscono di per sé le ragioni di un successo ritenuto inconcepibile fino a pochi mesi prima.

Gianfranco Fini e Alessandra Mussolini usciranno entrambi sconfitti dai ballottaggi del 5 dicembre successivo. Una sconfitta però dal sapore agrodolce, che già lascia intravedere scenari ben più fausti. Non a caso, all’indomani del voto, il segretario missino commenterà a caldo: “Anche se ho perso, è un successo”. Quel voto ha in effetti ha creato un precedente, ha aperto una crepa nella quale poche settimane dopo a infilarsi sarà – lupus in fabula – proprio Berlusconi: il 26 gennaio 1994 il Cavaliere annuncerà infatti la sua “discesa in campo” con un movimento nuovo di zecca, ancora avvolto nella plastica (absit): Forza Italia.

Solo allora si comprenderà il vero senso del “proclama di Casalecchio”: una mossa che, spiega l’ideologo della Nuova Destra italiana Marco Tarchi, “aveva un mero carattere tattico e opportunistico ma gettava le basi di un bipolarismo di nuovo conio che metteva ai margini del sistema quel centro che lo aveva sino ad allora dominato”. Alle politiche del 27-28 marzo seguenti, il centro-destra di Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Umberto Bossi sbaraglierà la “gioiosa macchina da guerra” progressista guidata dallo sventurato Achille Occhetto.

Liberato dai lacci della pregiudiziale antifascista, il Msi si ritroverà così al governo con cinque ministri (Tatarella, Fiori, Matteoli, Poli Bortone, Fisichella), dodici sottosegretari e Pinuccio Tatarella nel ruolo di vicepremier: se non è un en plein, poco ci manca. Come continua la storia lo sappiamo, e ne riparleremo.

Da quei primi giorni di gloria sono trascorsi trent’anni. Oggi la Fiamma Tricolore che fu di Giorgio Almirante e Gianfranco Fini guida il Paese da tredici mesi. Ha cambiato pelle ma neanche troppo, a dispetto delle buone intenzioni raccolte in quelle “tesi di Fiuggi” votate – come ricorda Paolo Macry nel recente “La Destra italiana. Da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni” – da tutta l’assemblea della neonata Alleanza Nazionale “salvo l’opposizione del gruppo di Pino Rauti e Giorgio Pisanò”. Ma di buone intenzioni, si sa, è lastricata la strada per l’inferno. Testa bassa e pedalare, dunque: conclusa la lunga luna di miele con gli italiani, ora tocca fare i conti con la realtà. Anzi, tocca fare i conti e basta, perché c’è una manovra da chiudere entro un mese. Allacciate le cinture.

La Standa dei bottoni. 30 anni di destra democratica da Berlusconi alla manovra

Quello che finirà per passare alla Storia come lo “sdoganamento” della destra post-fascista avvenne il 23 novembre 1993, trent’anni fa, con queste parole: “Fini è un esponente che ben rappresenta i valori del blocco moderato nei quali io credo”. Eccola, la parolina magica: “moderato”

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