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La partita delle terre rare è diventata uno dei principali fronti della competizione geopolitica nel mondo digitalizzato del terzo millennio. Il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva della III Commissione della Camera (Affari esteri e comunitari) fotografa una realtà scomoda: l’Europa vuole guidare la transizione verde e digitale, ma resta strutturalmente dipendente da Pechino per i materiali senza i quali turbine eoliche, batterie, semiconduttori e sistemi di difesa semplicemente non funzionano. Formiche.net ha chiesto a Federica Onori, segretaria della Commissione Affari esteri e comunitari, quali siano i rischi per l’Italia e per l’Ue, e come questi attori possano muoversi per migliorare la propria difficoltosa posizione in questo ambito.

Cosa emerge dall’indagine conoscitiva da lei promossa?

Una serie di conclusioni tecniche, a cui si accompagnano due elementi con un netto rilievo politico. La prima è che questo tema ha implicazioni concrete per le relazioni internazionali. Che è  il motivo per cui abbiamo condotto l’indagine in Commissione Esteri, esplorando ovviamente anche le questioni di politica industriale, dell’approvvigionamento, e di tutte le altre sfumature più afferenti alla Commissione Attività produttive, ma volendo mettere il focus su come l’approvvigionamento di alcune materie prime chiave, soprattutto quando segnato da difficoltà può avere anche a livello geopolitico.

E il secondo elemento?

Il secondo elemento che voglio sottolineare è che questo documento è stato votato all’unanimità. Un segnale evidente della sua non ideologicità, che abbiamo perseguito sin dall’inizio della stesura di questo documento, nei primi mesi del 2023. Da allora abbiamo fatto diverse audizioni, dove sono emerse tutta una serie di tematiche di carattere prettamente pragmatico, dalla necessità di continuare con la transizione verde, che avviene attraverso un approvvigionamento di materie con tutta una serie di conseguenze sul lato delle relazioni internazionali, come accennavamo prima, e che  non può essere fatta soltanto limitandoci ai confini europei. Serve dunque un piano d’azione composito, non c’è una soluzione semplice che risolverà il problema. Per trovare una soluzione valida è appunto necessario approcciare con pragmatismo un tema che altrimenti tende a essere polarizzato. E quanto accaduto con questo documento sembra suggerire che siamo nella direzione giusta.

Quali sono le opzioni emerse per avere un impatto sulla situazione?

Sono molteplici, e diverse tra loro. Un primo punto importante è senz’altro mappare il patrimonio minerario italiano, a cui abbiamo accesso diretto e che non ci può essere negato. Ma il cui utilizzo potrebbe avere altri tipi di “costi”. Nel suo libro “La guerra dei metalli rari”, Guillame Puitron mettere in luce la contraddizione irrisolvibile del nostro modello di sviluppo e consumo, ricontemplando la possibilità di approvvigionarci di alcune materie dai nostri stessi territori e non fare un outsourcing completo e totale verso quei paesi che poi non hanno misure di difesa dell’ambiente, di difesa del lavoro come quelle che abbiamo noi. Secondo Puitron riportare i processi estrattivi, leggasi miniere, nei nostri territori ci aiuterebbe a ricordarci il loro vero “costo”, in questo caso più che altro ambientale, perché abbiamo delle leggi sul lavoro che non permettono lo sfruttamento, per fortuna. Accanto a questo, l’altra priorità assoluta sta nel diversificare.

In quale direzione?

Ovviamente in direzione di Paesi “like-minded”, quindi Paesi che entro certi limiti possano garantire una sostenibilità del rifornimento nel tempo. Candidati ideali potrebbero essere i Paesi del Mercosur, come ad esempio il Brasile, che detiene una delle maggiori riserve mondiali di grafite, e ha riserve importanti di neodimio e prasiodimio che sono utilizzati nei magneti ad alta prestazione per i motori elettrici. O ancora l’Australia, il Giappone o persino l’Ucraina. Tutti partner che possono offrire un’alternativa alla Cina, che al momento detiene il monopolio assoluto sia per quanto riguarda l’estrazione che per quanto riguarda la lavorazione. E che potrebbe facilmente bloccare il nostro accesso a queste risorse, come reso evidente dalle recenti azioni di Pechino.

Cina che rimane a tutt’oggi il punto di riferimento in questo settore. Per cercare id arginare la sua primazia, come possono agire l’Italia e l’Europa? Hanno dei margini di manovra “da soli”, o devono obbligatoriamente agire in sincronia con altri partner?

La Cina non è il nemico, però è la principale fonte di rischio e quindi di incertezza, appunto per la posizione di monopolio che ha costruito negli anni. E che forse avremmo dovuto sapere osservare da prima. Un fatto che offre lo spunto per una serie di riflessioni su che tipo di strategia si sia seguita finora su questi temi e come mai non ci siamo accorti, ad esempio, che noi inseguivamo la convenienza economica, mentre la Cina andava avanti sulla sicurezza economica. La prima strategia guarda al presente, mentre la seconda combina al presente la preoccupazione per il futuro. Forse dovremmo attuare un cambio di paradigma e adottare anche noi un approccio incentrato sulla sicurezza economica, scevro da un dibattito puramente ideologico, e quindi capace di cogliere le singole sfumature anziché limitarsi alla dicotomia tra bianco e nero, e costruito assieme a partner giusti per seguire obiettivi che nel nostro caso sono nazionali ed europei allo stesso tempo. Partner che possono essere raggiunti attraverso diverse iniziative, come il Mercosur che citavamo prima, ma anche con il Piano Mattei.

Soffermiamoci su quest’ultimo…

Per il nostro Paese questa è una grande chance per provare a instaurare rapporti bilaterali con i paesi Africani, che possano permetterci anche un approvvigionamento più ponderato, più strategico e che duri nel tempo. Un legame che poi Roma dovrebbe estendere all’Europa, che è il nostro punto di riferimento. C’è una serie di attività sui rapporti bilaterali, come i progetti francese e danese in Groenlandia o quello tedesco con il Canada, che vanno visti però in un’ottica europea. La strategia deve essere a livello di continente, e mi pare che sia questa la strada seguita, anche se con tutte le difficoltà e i rallentamenti del caso. 

Oltre alla questione geopolitica legata all’accesso alle terre rare, nel documento emerge anche la questione dell’importanza del riciclo e della possibile sostituzione delle stesse con altri materiali grazie allo sviluppo tecnologico.  Come crede che si debbano ripartire gli sforzi verso questi altri settori?

Su questo tema l’Italia è assolutamente indietro rispetto alla media europea. Sappiamo quanto questi materiali siano difficili da ottenere, e l’approvvigionamento di questi materiali ci espone anche a una serie di rischi geopolitici, o comunque ci induce anche a dover scegliere dei partner invece che altri. Quindi il riuso, il riciclo e il riutilizzo sono step importantissimi della strategia, e su questo l’Italia deve fare la sua parte. Poi c’è però lo scenario in cui subentra un “elemento magico”, ad esempio una tecnologia innovativa, che oggi non abbiamo, ma che però sappiamo essere in fieriMa fino a che poi una tecnologia non c’è, e un’innovazione non è effettiva, la politica non può prenderla in considerazione più di tanto all’interno del suo calcolo. Quello che può fare è sostenere i progetti di ricerca e di sviluppo che puntano a sintetizzare un materiale che ha le stesse proprietà, o proprietà simili a quelle delle materie prime, critiche, delle terre rare, ma che viene appunto sintetizzato a partire da materie prime che non sono critiche e che non sono rare, per cui invece l’approvvigionamento è meno problematico. Questa è una strada significativa, ma non si può prenderla già in considerazione mentre si concepisce una strategia di policymaking.

L’Italia può (e deve) giocare la partita delle terre rare. Onori (Azione) spiega come 

Il testo della III Commissione ricostruisce la vulnerabilità dell’Europa rispetto al quasi monopolio cinese. La parlamentare di Azione Federica Onori sottolinea che “la Cina non è il nemico, però è la principale fonte di rischio e quindi di incertezza”, ricordando che l’Ue deve correggere la propria strategia passata, in cui “noi inseguivamo la convenienza economica, mentre la Cina andava avanti sulla sicurezza economica”. La risposta deve essere un cambio di paradigma condiviso con partner affini

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