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In un mondo multi-bi-polare, nella logica di (ri)cercare in un “progetto di civiltà”, il fattore umano è determinante. I deliri di appartenenza, che maturano nella radicalizzazione in ciò che siamo, sfociano inevitabilmente in “identità competitive” che, lungi dal voler servire il mosaico del vivente, si collocano “prima” di altre in una sorta di rincorsa alla “migliore” umanità.

Non ci preoccupa la competizione economica ma l’esondazione della competizione nella nostra interiorità e nella possibilità di costruire dinamicamente uno “spazio pubblico”, anima politica delle forme di organizzazione della convivenza umana.

Già la forma democratica, in sé sistema di regole e processo che tenta di integrare le differenze per una “giusta” convivenza, è un qualcosa di fragile e di incompiuto. A ciò si aggiungono le difficoltà che, complici la paura, il disagio e le disuguaglianze presenti e crescenti, pongono in secondo piano i “vantaggi” del convivere.

La competizione fra identità, se in superficie esalta l’individualismo e separa “noi” da “loro”, ha in realtà effetti ben più profondi: erode le possibilità di costruire comunità umane e di dare senso e significato a quell’ “in comune” che ci mostra il nostro limite in ogni altro, pur continuando ciascuno di noi a essere sé stesso. Di fronte all’ “in comune” capiamo che la nostra libertà comincia dove comincia quella dell’altro, che è liberazione.

Il senso dell’identità è cruciale per ciascun essere umano, poiché definisce chi siamo, cosa siamo stati e cosa desideriamo essere; è un qualcosa a cui teniamo così intensamente da difendere “a ogni costo” qualora lo sentiamo minacciato. Evoluzionisticamente siamo portati a competere, per essere socialmente dominanti ed imporre i nostri ranghi di potere e di dominanza/sottomissione nelle relazioni con l’altro, utilizzando modalità aggressive e coercitive. La competizione, tendenza innata e biologicamente determinata, genera rivalità e – in una sorta di circolo vizioso – porta a considerare come prioritario il soddisfacimento delle esigenze dell’Io, a discapito di quelle dell’ “in comune”. Ma tale individualismo esasperato, prodotto di una modalità di “funzionamento disfunzionale”, sovente sfocia nell’irresponsabilità sociale poiché ignora il tessuto culturale e valoriale in cui è immerso e da cui implicitamente viene condizionato. L’identità che compete con modalità e fini distorti si illude di aver vinto e di aver imposto la propria supremazia ma, in realtà, ha solo perso la possibilità di confrontarsi in maniera costruttiva, negandosi opportunità di arricchimento.

Solo educando all’autentica condivisione e alla cooperazione, volta al raggiungimento di obiettivi comuni, sarà possibile sviluppare forme più sofisticate di comunicazione intersoggettive ed empatiche, finalizzate alla costruzione di valori alternativi, sintesi delle molteplici identità che competono tra loro.

È chiaro che, al fine di percorrere questa prospettiva, tutta da costruire, ci vuole un pensiero non solo lineare e causale ma complesso, critico, d’intelligence. Il mondo di oggi non può più essere interpretato attraverso teorie geopolitiche e universalizzanti; c’è bisogno, anzitutto, di una filosofia “nel” presente e del coraggio di (ri)pensare il pensiero politico, (ri)flettendoci in ciò che siamo per diventarlo progressivamente.

(questo testo è stato scritto con Teresa Ferrantino, psicologa, esperta in neuroscienze e analisi del comportamento non verbale)

Deliri di appartenenza

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