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I media outlet dell’Esercito nazionale libico, Lna, ci tengono a far sapere ai giornalisti occidentali che è iniziata la campagna di sterilizzazione di tutte le strutture pubbliche della Cirenaica. La milizia guidata dall’eterno ribelle Khalifa Haftar risponde a un’iniziativa presa dal governo di Tripoli, l’esecutivo onusiano messo sotto assedio da quasi un anno. Lo scontro è anche sul piano informativo. Due giorni fa, il leader del Consiglio presidenziale, il premier libico Fayez al-Serraj, ha dichiarato lo stato di emergenza nel Paese e ha annunciato la chiusura dei porti e degli aeroporti a partire da lunedì 16 marzo per evitare la diffusione del SarsCov2.

Oltre ai confini, resteranno chiusi per due settimane le scuole, i bar e le sale per le feste, perché sebbene i dati siano parziali — anche per via della quantità limitata dei campionamenti — il virus sta arrivando anche in Africa. Soprattutto nella parte settentrionale, più connessa all’Europa (e alla Cina). La presenza della crisi sanitaria fa da aggravante all’instabilità politica e militare.

Lo schema diplomatico messo in campo dagli attori esterni che si muovono attorno al dossier, la conferenza di Berlino promossa dalla Germania a gennaio, rischia di arrivare a un capolinea definitivo. La Francia ha provato fino all’ultimo a sfruttare a suo vantaggio la diffusione del virus in Italia. Parigi ha cercato iniziative per muoversi su entrambi i fronti, ma la realtà è che il processo generale ha perso attenzione, rallentato dal dilagare della pandemia. Una situazione che tutti i Paesi che si muovono sulla Libia, dalla Russia alla Turchia, dagli Emirati Arabi all’Italia appunto, vedono chiaramente come prioritaria da gestire.

Quando si riprenderanno a muovere le dinamiche libiche molti equilibri potrebbero essere cambiati, ma intanto quello che è sicuro è che ci sarà un nuovo inviato speciale delle Nazioni Unite. Ghassan Salamé si è dimesso, il libanese che guidava le iniziative Onu da due anni ha detto di non reggere più lo stress. È il quinto a saltare, e chi lo segue “avrà l’ingrato compito di riconsiderare nuovamente l’approccio delle Nazioni Unite alla luce di quello che sembra solo l’ennesimo fallimento. Un fallimento in fondo prevedibile, ma che denuncia ormai la mancanza di alternative sempre più evidente da parte di chi ha l’ingrato compito di cercare mediazioni nella crisi libica”, scrive Eugenio Dacrema in un report per l’Ispi, think tank dove co-dirige il Mena Center.

Salamé, ideatore della Conferenza, potrebbe essere sostituto dalla sua vice, l’americana Stephanie Williams, oppure dall’ex ministro degli Esteri algerino e diplomatico esperto Ramtane Lamamra. Su quest’ultimo le voci sarebbero più insistenti al momento, e la decisione è vista come una via per riportare l’attenzione della crisi a livello regionale. Tutto dando un riconoscimento all’Algeria, che fonti dal governo tripolino descrivono molto attiva sul piano diplomatico — e anche operativo, avendo fornito all’esecutivo internazionalmente riconosciuto assistenza di intelligence per bloccare l’offensiva haftariana, sebbene muovendosi in forma discreta. La presenza algerina alla guida della cabina di regia Onu potrebbe anche riequilibrare sul piano della politica internazionale l’impegno che l’Egitto ha messo in gioco sul campo militare.

Riqualificare e rimodulare l’azione delle forze regionali, interessate per continuità dalla situazione, potrebbe esser un elemento in grado di diminuire il meddling esterno? Ossia diminuire le attività che hanno portato Paesi come la Turchia sul lato della Tripolitania o degli Emirati Arabi su quello haftariano? Attori spregiudicati che hanno inviato sostegno militare ai fronti, violando l’embargo Onu pur di continuare lo scontro per procura. Una spaccatura interna al sunnismo che divide i giganti del Golfo da Turchia e Qatar.

Libia, il coronavirus non ferma la crisi. Da dove ripartire

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