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“I buoni risultati di un candidato moderato nelle primarie democratiche costituiscono uno sviluppo significativamente positivo – scrive ai suoi clienti Marko Kolanovic, analista alla JPMorgan Chase – perché allontanano la possibilità di un candidato di estrema sinistra, un rischio che stava agitando i mercati”. Dunque, meglio Biden che Bernie Sanders per Wall Street, ma c’erano pochi dubbi.

Analizzando i risultati sul New York Times, Lisa Lerer nota che Sanders, quest’anno, anche dove vince, persino nel suo Stato, il Vermont, attira meno consensi che nel 2016, quando era una novità e quando la sua rivale Hillary Clinton suscitava forti antipatie in una fetta dell’elettorato democratico. Sanders sembra avere uno zoccolo duro solido di un terzo/due quinti dell’elettorato democratico, ma non riesce ad andare oltre: il che ne può condizionare la corsa alla nomination e può soprattutto costituire un handicap insormontabile nell’Election Day, se dovesse ottenere la nomination.

Cosa che le cifre indicano ancora possibile: dopo il Super Martedì, e il ritiro di Mike Bloomberg, è corsa a due, fra Biden e Sanders. Elizabeth Warner non s’è ancora ritirata, ma sta valutando se farlo: se resta in lizza, è solo un tafano sotto la sella di Sanders. I risultati del Super Martedì sono chiari: Biden ha vinto in dieci Stati, Sanders in quattro, Bloomberg solo nelle Samoa Occidentali, lei mai.

Il miliardario ex sindaco di New York abbandona, dopo avere condotto la campagna elettorale più costosa (al giorno) – 560 milioni di dollari spesi – e più inutile della storia, e appoggia Biden. Così, la “grande convergenza” moderata voluta e orchestrata da Barack Obama va avanti: “Ho sempre sostenuto – dice Bloomberg – che il primo passo per battere Trump sia unirsi dietro al candidato che ha le chance migliori per farlo. È chiaro che questo candidato è il mio amico Joe Biden”.

Una verifica verrà già martedì prossimo 10 marzo, e poi il successivo 17 marzo, due altri mini Super Martedì, con al voti Stati cruciali come, fra gli altri, Florida (219 delegati) e Ohio (136). Oltre che in Texas, Virginia, Massachusetts, dov’era favorito Sanders, Biden il 3 marzo s’è imposto in Maine, North Carolina, Tennessee, Alabama, Oklahoma, Arkansas e Minnesota. Sanders, invece, ha vinto Vermont, Colorado e Utah e, soprattutto, California.

A livello di delegati, i conteggi sono ancora in corso e andranno avanti per giorni, ma la conta ne dà 380 a Biden – totale con quelli già conquistati 433 – e 328 a Sanders – totale 388 -, 28 alla Warren – totale 36 -; 12 a Bloomberg (da devolvere a Biden) e uno a Tulsi Gabbard, che non ne avevano. Per avere la nomination, ce ne vogliono 1991: la strada è ancora lunga 35 primarie, di qui a giugno.

Sul piano demografico, etnico, geografico, Biden è campione fra gli “over 50” e i neri e nel Sud; Sanders fra i giovani e – novità rispetto al 2016 – gli ispanici, oltre che sulle Montagne Rocciose. Il Super Martedì fa scattare un ulteriore segnale d’allarme per il senatore, che perde in tutti gli Stati passati dai caucuses alle primarie, Maine, Minnesota, Colorado, dove nel 2016 aveva vinto; e ve ne sono molti altri, di qui in avanti, che hanno fatto la stessa scelta.

La reazione di Sanders a un Super Martedì per lui deludente è stata grintosa, ma anche rabbiosa: “Conosco Biden ed è una persona perbene, ma abbiamo visioni diverse del futuro e spero che ci potremo confrontare in futuro nei dibattiti. Deve spiegare molte cose agli elettori”, ha detto, riferendosi a scelte fatte dal senatore Biden nel suo lungo percorso politico.

Sanders denuncia anche le aggressioni mediatiche e politiche alla sua campagna: “Siamo stati paragonati al coronavirus, all’invasione nazista della Francia”. Il senatore è polemico con l’establishment democratico, che gli rema contro, ma va all’attacco con nuovi spot negli Stati dove si vota il 10 e 17 marzo.

(Usa2020)

Buone notizie per Trump. La vittoria di Biden piace a Wall Street

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