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Sono tra coloro che pensano che il nostro sguardo debba tornare, in termini progettuali e non solo di memoria, a ciò che accadde nei primi decenni del novecento. Senza costruire sovrapposizioni del tutto inadeguate, penso che l’idea totalitaria ancora percorra il nostro tempo globale, interconnesso e caratterizzato da una innovazione crescente e foriera, molti studi ce lo dicono, di grandi opportunità e di altrettanti rischi.

Nel rileggere le pagine di Hannah Arendt, in particolare quelle sul tramonto della società classista in “Le origini del totalitarismo”, mi domando se l’idea di massa si adatti al nostro tempo. Esprimo appieno la mia opinione sostenendo che si, quell’idea è del tutto attuale, ci è contemporanea.

Credo, pertanto, e il mio impegno intellettuale va in tal senso, che sia necessario riflettere sulla nostra condizione, e su ciò che diventiamo, all’interno di una riflessione più ampia sulla persistenza, e in quali forme, dell’idea totalitaria. Servono laboratori di approfondimento che, integrando differenti sensibilità e generazioni, lavorino a costruire reti culturali di consapevolezza e di progetto.

Il lavoro di laboratorio che qui si propone non può che essere transdisciplinare e transgenerazionale. C’è un problema fondamentale di necessario ripensamento della politica, dell’agire politico e di quella che si chiama “arte del governare”. Il tutto va calato nel mondo-che-è, tenendo in conto che la dimensione globale delle sfide ci arriva in casa, nei nostri piccoli mondi, erodendo ulteriormente quella sovranità nazionale che, inevitabilmente appartenendoci in quanto membri di comunità umane eredi di tradizioni ineliminabili, trasformiamo – in nome della paura di perderla – in forme (anche molto provinciali) di nazionalismo. Ecco il punto dal quale cominciare a riflettere.

Abbiamo combattuto il nazionalismo, giustamente considerandolo tra le cause delle peggiori guerre e dell’avvento dei regimi totalitari del secolo scorso, e oggi ci ritorna; non abbiamo solo il dovere dell’attenzione ma, soprattutto, abbiamo (ciascuno e tutti) la responsabilità della progettazione storica della politica e della formazione a essa.

Nella prefazione alla prima edizione de “Le origini del totalitarismo” (1950), Arendt scrive: Non possiamo più permetterci il lusso di prendere quel che andava bene in passato e chiamarlo semplicemente retaggio, di scartare il cattivo e considerarlo semplicemente un peso morto che il tempo provvederà da sé a seppellire nell’oblio. La corrente sotterranea della storia occidentale è finalmente venuta alla superficie usurpando la dignità della nostra tradizione. Ecco la realtà in cui viviamo. Ecco perché tutti gli sforzi compiuti per evadere dall’atmosfera sinistra del presente nella nostalgia per un passato ancora intatto, o nell’oblio anticipato di un migliore futuro, sono vani.

Il nuovo non basta, se non è il frutto di una paziente, radicale e radicata ricerca interiore e storica.

 

 

Ritorni progettuali

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