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I nodi da sciogliere a Madrid erano gli stessi – non risolti ma rinviati – della COP 21 a Parigi nel 2015, e prima ancora della COP 15 di Copenaghen nel 2009, per non parlare della COP 6 dell’Aja nel 2001. Questo dato mette in evidenza due questioni che la comunità internazionale dovrebbe finalmente affrontare, sia riguardo al merito dei negoziati, sia riguardo allo stesso format delle COP (Conference Of the Parties). I nodi critici – sul tavolo ormai da oltre 20 anni – riguardano questioni cruciali la cui risoluzione viene rinviata da COP a COP:

– Gli obiettivi e gli obblighi dei singoli paesi per la riduzione progressiva delle emissioni di carbonio, ovvero per la riduzione dell’impiego delle fonti fossili e la loro sostituzione con le fonti energetiche ad emissioni zero (rinnovabili e nucleare), e la contestuale introduzione di un prezzo del carbonio a livello globale per disincentivare le fonti fossili. Come ha “candidamente” ricordato il segretario generale delle Nazioni queste misure avrebbero l’effetto di cambiare radicalmente la geopolitica e l’economia dell’energia.

– La realizzazione di un “meccanismo di mercato” globale per dare valore alla capacità naturale di assorbimento del carbonio atmosferico, ovvero alla vendita dei crediti misurabili in tonnellate di carbonio accumulati nei  “pozzi di carbonio” (zone umide, foreste, suoli agricoli) con significativi vantaggi in primo luogo per le economie di Australia, Brasile, Cina, Congo, Russia. Questa misura avrebbe l’effetto diretto e indiretto di promuovere la protezione e gestione sostenibile delle foreste, la ricostituzione degli ecosistemi terrestri ad alta capacità di assorbimento, l’agricoltura a basso sfruttamento dei suoli.

– Il supporto finanziario e tecnologico per sostenere nelle economie in via di sviluppo e/o emergenti le misure di “decarbonizzazione”, che secondo l’accordo del 2010 dovrebbero essere finanziate dal Green Climate Fund con 100 miliardi $/anno a partire dal 2020, “compensazione” per la copertura dei danni e la prevenzione dei rischi connessi agli eventi climatici estremi, con un fondo che dovrebbe essere dotato di almeno 150 miliardi $/anno.

Queste misure, che erano considerate necessarie già all’inizio degli anni 90’, sono oggi quanto mai urgenti se si vuole rallentare la crescita della concentrazione di CO2 in atmosfera che ha ormai superato la soglia critica di 400 parti per milione, livello considerato al limite dell’equilibrio  del sistema climatico dalla National Academy of Sciences degli Usa “Trajectories of the Earth System in the Anthropocene”, (agosto 2018).

È tuttavia evidente che un “pacchetto” così complesso di misure può essere adottato solo se gli obiettivi di riduzione delle emissioni vengono incorporati in un quadro di riferimento globale di  politiche e regole nei settori dell’energia, dell’agricoltura e gestione delle foreste, della cooperazione internazionale, del commercio internazionale. La Cop di Madrid ha messo in evidenza ancora una volta che senza questo background di politiche e regole è praticamente impossibile assumere decisioni che vadano oltre la conferma ormai rituale degli impegni politici per la protezione del clima.

È necessario di conseguenza “allineare” gli standard e le politiche di settore agli obiettivi ambientali per la protezione del clima. Tenendo conto che i diversi livelli di sviluppo da un lato e di “intensità di carbonio” dall’altro richiedono obiettivi e misure differenziate per i singoli paesi o gruppi di paesi allo scopo di assicurare che la protezione del clima sia uno strumento di crescita e riequilibrio nell’economia globale, come ben rappresentato a Madrid dalle posizioni del “gruppo” Brasile, Cina, India e SudAfrica.

In altre parole, la Cop può essere il luogo nel quale vengono indicati gli obiettivi ambientali per la protezione del clima, ma non è certamente la sede in grado di prendere le decisioni relative alle politiche ed alle regole di settore necessarie per raggiungere gli stessi obiettivi.

Infatti le emissioni di CO2 hanno continuato a crescere perché gli obiettivi ambiziosi stabiliti dalle Cop, e soprattutto dal Protocollo di Kyoto nel 1997 e dall’Accordo di Parigi nel 2015, non sono stati sostenuti né da politiche concrete per la decarbonizzazione dell’economia globale alternative ai programmi di lungo termine per l’estrazione e l’impiego di carbone e olio, né da strumenti efficaci per assicurare la cooperazione tecnologica e finanziaria. Anzi, decarbonizzazione e cooperazione sono una delle prime vittime delle guerre commerciali.

La domanda è:  chi deve promuovere le politiche per la decarbonizzazione dell’economia globale, ovvero valide in tutti i continenti?

Se i termini della crisi climatica sono quelli presentati dalla comunità scientifica internazionale, sarebbe auspicabile e urgente che a fronte del fallimento della COP 25 le leadership delle principali economie del pianeta si facessero carico direttamente di negoziare un “menu” di  politiche energetiche e agricole, e di meccanismi finanziari, per realizzare la progressiva decarbonizzazione dell’economia globale nell’arco di tempo suggerito dai climatologi, entro il 2050.

L’Unione europea che ha appena lanciato il “New Green Deal”, e la Cina che ha promosso la “Global Energy Interconnection”, potrebbero lanciare un progetto globale di decarbonizzazione nell’ambito della Eu-China partnership, in collaborazione con il Gruppo G20 e l’Organizzazione Mondiale del Commercio – WTO.

Come è stato ricordato da molti in questi giorni il cambiamento climatico corre molto più veloce delle decisioni della politica. Bisogna uscire dalla ritualità delle Cop, adottare un percorso negoziale efficace e veloce, chiedere alle grandi economie del pianeta – nel quadro delle “common but differentiated responsabilities” – di decidere le regole e le politiche per gestire la crisi climatica prima che la crisi prenda il sopravvento.

Non è la Cop che può vincere la sfida del clima ma... L'opinione di Clini

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