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Storicamente la politica estera italiana ha sempre avuto una significativa dose di ambiguità. Ne sono testimonianza i repentini cambi di alleanze, i ripetuti distinguo nel quadro delle iniziative condivise con alleati e partner, la fantasiosa terminologia per indicare le nostre posizioni politiche, militari e diplomatiche in modo da dire e non dire, fare e non fare (famosa la “non belligeranza” mussoliniana per giustificare per quasi un anno il mancato rispetto del Patto d’Acciaio con la Germania e, in questi ultimi decenni, le “missioni di pace” per non allarmare la nostra opinione pubblica, contribuendo ad impedire la diffusione nel nostro Paese di una cultura della sicurezza e difesa).

Diversi fattori hanno favorito questo approccio: il provincialismo e l’ignoranza di molti, troppi, nostri politici che piegano la politica estera alle loro ambizioni elettorali; la convinzione che Roma sia per definizione caput mundi; l’illusione di poter evitare di essere coinvolti nelle crisi internazionali; la presunzione di poter essere sempre noi ad insegnare agli altri; un diffuso pacifismo ideologico che accomuna una parte importante della sinistra e della destra, con un latente anti-americanismo e anti-ebraismo; un’inesistente memoria storica (anche nel breve periodo) e la credenza che questo valga anche all’estero; e si potrebbe continuare sulle debolezze nostre e dei nostri vertici. Ma, soprattutto, emerge come tratto caratteristico della storia unitaria, la mancanza di una strategia nazionale che indichi e tenga aggiornati gli obiettivi concreti che il nostro Paese persegue in campo internazionale.

In quest’ultimo trentennio si è poi aggiunto il dibattito sui limiti che la nostra Costituzione imporrebbe alle operazioni militari all’estero che, per altro, sono stati utilizzati con grande flessibilità. Basti ricordare il nostro diretto intervento nel 1990 contro l’Iraq di Saddam Hussein dopo la sua invasione del Kuwait o quello del 1999 contro la Serbia di Slobodan Milosevic (compreso l’uso delle basi e dello spazio aereo italiano) che voleva impedire l’indipendenza del Kosovo. In altri casi, invece, i supposti limiti sono diventati la “foglia di fico” delle nostre paure: così, nel 2011 non abbiamo partecipato all’attacco conto la Libia di Muammar Gheddafi, ma abbiamo concesso l’uso delle nostre basi e, nel 2014, non abbiamo bombardato le forze dell’Isis in Iraq e Siria, ma abbiamo indicato, coi nostri velivoli pilotati e non, gli obiettivi che venivano poi colpiti dai velivoli della coalizione. Anche in questo caso, comunque, bisognerebbe essere conseguenti: se la nostra Costituzione davvero impedisse a un Paese attaccato di utilizzare armi italiane per difendersi, compresa la possibilità di colpire le basi da cui provengono gli attacchi, vuol dire che non è più adeguata al nuovo scenario della minaccia internazionale. E nel momento in cui se ne dovesse prendere atto rispettandone le implicazioni, si dovrebbe iniziare una seria discussione sui cambiamenti necessari.

È interessante osservare che nel pantano delle nostre ambiguità siano sprofondati ripetutamente esponenti di governi di centro-sinistra e di centro-destra, dei partiti di maggioranza o, alternativamente, di opposizione (in un farsesco gioco delle parti a cui nessuno si sottrae).

Tutto questo spiega il dibattito che si è sviluppato in questi mesi sul nostro sostegno all’Ucraina. In due anni siamo passati da un’unanime condanna dell’invasione russa e dal riconoscimento del diritto dell’Ucraina a difendersi, col sostegno dei nostri alleati e partner, alle incertezze sulla necessità di imporre pesanti sanzioni europee economiche e finanziarie alla Russia e a quelle sulla tipologia di armi che l’Italia poteva fornire all’Ucraina per finire, dopo il recente attacco ucraino nella regione russa di Kursk, con la limitazione imposta pubblicamente all’Ucraina a non utilizzare armamenti italiani sul territorio russo.

Su questa pubblica limitazione, caso unico fra i principali Paesi occidentali, si sono trovati d’accordo gran parte delle forze politiche italiane, seppure con diverse motivazioni, a conferma dell’ottica politica interna (soprattutto a fini elettorali) che condiziona la nostra politica internazionale. Ha, infatti, raccolto il consenso dei pacifisti (veri e finti), dei sovranisti di destra e di sinistra, degli anti-americani, degli anti-europei, dei filo-russi, dei complottisti e dei molti che, come gli struzzi, vorrebbero mettere la testa sotto la sabbia.

Sul piano politico non sembrano, però, essere state valutate adeguatamente le conseguenze di questa posizione italiana che rischia di compromettere la nostra credibilità nel mondo occidentale, ma anche in quei Paesi con cui stiamo cercando di costruire rapporti di partenariato nel campo della difesa. Stupisce che non se ne sia reso conto un governo che all’inizio del suo mandato aveva dovuto gestire, con successo, l’imbarazzante vicenda dell’embargo imposto ad Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti sulla fornitura di missili e bombe perché utilizzati contro gli Houti nello Yemen. La sua revoca ha consentito di rimuovere un serio ostacolo alla nostra collaborazione con questi due Paesi e ha ridato forza all’affidabilità italiana come partner nella difesa e nella sicurezza. Per altro, per ironia della storia, si trattava degli stessi Houti che adesso stanno continuando ad attaccare le navi civili nel Mar Rosso, provocando un danno enorme al traffico navale verso il Mediterraneo e, in particolare, verso l’Italia.

Ma, soprattutto, non sembra esserci alla base delle attuali scelte italiane una credibile strategia internazionale che vada al di là dei tatticismi.

Di sicuro non si può pensare che in uno scontro aperto come quello condotto dalla Russia contro l’Ucraina, quest’ultima possa combattere come un pugile che avesse una mano legata, o meglio la tenesse volontariamente dietro la schiena.

La limitazione italiana non è, per altro, nemmeno di facile gestione. Un velivolo o un missile proveniente dalla Russia dovrebbero essere abbattuti solo dopo che sono entrati nello spazio aereo dell’Ucraina? I sistemi di lancio dei missili o l’artiglieria a lunga gittata godrebbero di immunità se operano al di là del confine ucraino? La differenza fra la brutale aggressione russa che colpisce anche la popolazione e obiettivi civili (scuole, ospedali, centri commerciali, infrastrutture energetiche) e l’attacco ucraino dentro il territorio russo è che, in questo caso, vengono attaccati obiettivi direttamente o indirettamente militari. Ed è solo su questa limitazione che l’Italia potrebbe far sentire la sua voce senza creare sospetti. Fino a quando l’azione militare ucraina si muove dentro questi confini, anche l’Italia dovrebbe rispettare la sovranità del Paese attaccato.

In questo dibattito nostrano si è poi aggiunta una “dotta” discussione sulla distinzione fra armi offensive e difensive. A parte pochissimi casi, e premesso che anche nelle guerre in cui ci si difende si devono poter impedire gli attacchi nemici là dove iniziano, il problema non è l’arma, ma la modalità e finalità con cui viene utilizzata. Un banale coltello da cucina diventa un’arma “offensiva” nelle mani di un fanatico islamico. Un missile aria-terra sparato, anche con lunga gittata, contro un carro da battaglia o una nave da combattimento è un’arma “difensiva”. A questo proposito, ai nostri azzeccagarbugli sembra essere sfuggito che le “navi militari” sono considerate dal diritto internazionale “territorio” dello Stato di appartenenza, e quindi la limitazione italiana dovrebbe estendersi anche ad esse, ma, per fortuna, la flotta russa del Mar Nero non sembra più in grado di condurre azioni offensive.

Sarebbe, quindi, auspicabile un’ulteriore riflessione sulle scelte italiane, guardandole non in un’ottica di breve, ma di lungo periodo, inquadrandole in una strategia che tuteli globalmente e stabilmente il nostro interesse nazionale in un modo sempre più imprevedibile e complicato.

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In due anni siamo passati da un’unanime condanna dell’invasione russa con la limitazione imposta pubblicamente all’Ucraina a non utilizzare armamenti italiani sul territorio russo, caso unico fra i principali Paesi occidentali – coi quali rischiamo di perdere la faccia. Non sembra esserci alla base una credibile strategia internazionale al di là dei tatticismi elettorali. Il commento di Michele Nones, vicepresidente dell’Istituto affari internazionali

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