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Hong Kong sta vivendo una serie di proteste senza precedenti, scoppiate a seguito di un proposta di legge per l’estradizione su cui il governo locale sembra non tornare indietro e che opposizioni, organizzazioni per i diritti, movimenti politici e cittadini considerano un’esposizione eccessiva alla Cina che potrebbe limitare il sistema di democrazia e libertà su cui si fonda il Paese. Argomento cruciale, la convergenza o meno con Pechino, più democrazia e autonomia o più controllo centrale, che è stato già dietro a diversi moti di protesta, per esempio la Protesta degli Ombrelli cinque anni fa.

TATTICHE DI PIAZZA

Quali sono le differenze tra le proteste che vediamo oggi e quelle precedenti? “Sono diverse, alcune sono dovute proprio all’esito di quanto accaduto nel 2014” risponde Simone Pieranni, redazione esteri del Manifesto, esperto di Cina, cofondatore del sito tematico Chinafiles. “Alcune sono pratiche – continua Pieranni – per esempio la polizia ha sparato il doppio dei lacrimogeni, e le tecniche dello stare in piazza e fronteggiarsi con le autorità da parte dei manifestanti sono apparse fin da subito più organizzate (anche alla luce del fallimento politico delle manifestazioni del 2014, che terminarono con un nulla di fatto quanto a risultati e una coda repressiva invece piuttosto pesante)”.

IL PESO POLITICO DELLA CINA

Ma c’è anche una differenza di natura politica? “Sì – conferma Pieranni”. “Nel 2014 si protestava a favore del suffragio universale: c’era pur sempre la Cina, ma in lontananza. Quella battaglia incrociava un sentimento molto comune a Hong Kong, ma non così trasversale come il sentimento che la Cina possa ledere le peculiari libertà dell’ex colonia, a cui ogni abitante locale tiene moltissimo”. Motivo, molto più del provvedimento per l’estradizione in sé, che ha portato migliaia in piazza in questi giorni, dunque? “C’è un forte risentimento contro la Cina, molto più evidente di quanto accaduto nel 2014. e molto più trasversale, tanto che ieri anche svariati lavoratori erano tra i manifestanti”.

L’OPINIONE PUBBLICA

“Se gli spifferi riportati da alcuni quotidiani locali sono veri – aggiunge Antonio Talia, giornalista esperto di Oriente, redattore di Radio24, analista, autore de “I Giorni del Dragone” (Informant), a ottobre in edicola con un nuovo libro – spingendo per l’approvazione della norma sulle estradizioni, Carrie Lam, l’attuale Chief Executive di Hong Kong ha commesso un errore di calcolo, rispondendo a linee guida generali dettate da Pechino con una legge che tocca direttamente le libertà civili più sentite nella città-stato, e adesso si ritrova a fronteggiare una crisi di difficile soluzione”. Cosa pensa l’opinione pubblica? “L’Extradition Law rappresenta una trincea, e l’approvazione della norma costituirebbe un punto di non ritorno. Se Lam farà marcia indietro, come riporta uno scoop odierno del Scmp, il suo mandato potrebbe concludersi con dimissioni discrete; se non riuscisse a trovare una qualche mediazione e proseguisse con il muro contro muro, si ritroverà a dover gestire una Hong Kong sempre più instabile”.

LA DONNA SOPRA ALLE PROTESTE

Ma chi è Carrie Lam? “È un tipico prodotto della società hongkonghese, molto composita e molto stratificata: proviene da un background di classe lavoratrice e ha frequentato le scuole cattoliche della città (ma in questi giorni di proteste la sua alma mater ha emesso un comunicato in cui prendeva posizione contro di lei). Non ha mai espresso posizioni politiche precise e, dopo essersi messa in mostra, è entrata molto presto nell’amministrazione dove s’è fatta largo con alleanze a geometria variabile, tanto che ha lavorato nella macchina burocratica di Hong Kong sia quando la città era sotto la dominazione britannica che, dopo il 1997, quando è diventata una Regione Amministrativa Speciale della Cina”.  Talia ricorda che “ha ereditato il ruolo di leader dopo le dimissioni di C.Y. Leung, fiaccato dalla proteste della Rivoluzione degli Ombrelli, ma le tocca un compito ancora più arduo: a soli cinque anni di distanza queste proteste sembrano più radicali e hanno un timer innescato”, perché “bisogna trovare una qualche soluzione entro ottobre, quando si celebrerà il settantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese e Xi Jinping pretenderà la massima coesione, anche da parte di Hong Kong”.

LE RICADUTE DELLA CRISI

Che ricadute può avere su società ed economia la crisi in corso in quella che è la terza piazza finanziaria del mondo? “Un report della società di consulenza pechinese Gavecal ha già annunciato che molti cinesi con conti correnti a Hong Kong sono pronti a spostarsi a Singapore, città-stato ancora più spregiudicata e con condizioni di business e di riservatezza simili a quelle hongkonghesi. E le grandi aziende internazionali, magari intimorite dalla nuova norma, potrebbero fare altrettanto”. Perché: che rischi esistono dietro la norma? “Come ha sottolineato il professore della NYU Jerome Cohen, massimo esperto occidentale di diritto cinese, l’Extradition Law non riguarda solo i cittadini hongkonghesi; teoricamente chiunque, anche in semplice transito a Hong Kong, potrebbe ritrovarsi incriminato e sottoposto a un processo secondo le norme cinesi, che non garantiscono la terzietà del giudice”.

IL CONTRACCOLPO DA WASHINGTON

Anche per questo si sono inseriti nella situazione gli Stati Uniti? “La vicenda incrocia anche la guerra dei dazi in corso con gli Usa: se già qualche mese fa Donald Trump aveva minacciato di ritirare lo Special Trading Status che lega Washington a Hong Kong, nei giorni scorsi anche Nancy Pelosi ha ventilato la possibilità di una mossa del genere da parte del Congresso. Tutto questo intreccio di situazioni, nel medio periodo, rischia di condannare alla decadenza e alla marginalità una delle città più dinamiche e particolari del pianeta. Resta da vedere se questa normalizzazione di Hong Kong sia davvero nell’interesse della leadership cinese”.

 

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