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In tutta Europa i partiti che promuovono un modello di civiltà occidentale e cristiana si stanno concentrando sul tema dell’immigrazione, raccogliendo consensi e polarizzando lo scontro politico.
Una tendenza analizzata dallo storico, professore e scrittore statunitense Daniel Pipes, presidente del think thank Middle East Forum. Sentito da Formiche.net durante un suo breve passaggio in Italia mirato proprio ad approfondire questo fenomeno, Pipes commenta in una intervista la situazione politica (e le influenze esterne) nel vecchio continente, la strategia dei Paesi arabi e l’ascesa di nuovi attori come la Cina.

Professor Pipes, da americano, storico ed esperto di Medio Oriente, come crede sia cambiato l’approccio statunitense nella regione durante la presidenza di Donald Trump?

Tanto i repubblicani quanto i democratici hanno cambiato il loro approccio su questo tema negli ultimi anni, tanto che in un certo senso la linea di Trump sembra più simile a quella di Barack Obama che non a quella di George W. Bush, nonostante entrambi appartengono allo schieramento dei conservatori. Bush ha promosso un importante coinvolgimento delle truppe americane sia nel caso dell’Afghanistan sia in quello dell’Iraq. Ma questo impegno ha richiesto una enorme quantità di denaro, debito e politiche discutibili. Gli Stati Uniti hanno passato gli ultimi dieci anni a bilanciare gli errori fatti in Medio Oriente, dunque al momento la dottrina repubblicana prevede un disimpegno.

Lei è in Italia anche per approfondire il modo in cui i vari Paesi occidentali stanno affrontando il tema dell’immigrazione, in particolare quella islamica. Considera l’Italia un laboratorio?

In Italia volevo capire cosa è cambiato in un anno con il nuovo governo, e anche se ci resto per poco tempo ho già avuto modo di valutare quanto fatto dalla Lega. Da un lato ho visto impegno nell’interruzione degli arrivi, ma ad eccezione della chiusura dei porti non ho visto altre misure volte ad approfondire la tematica. La risposta dunque, almeno finora, mi è sembrata parziale.

In tutta Europa, Italia compresa, il tema dell’immigrazione e dell’integrazione sono al centro dell’agenda politica e, più in generale, del dibattito pubblico. Come analizza questo fenomeno?

In tutta Europa i partiti che io chiamo “Civilizzazionisti”, ovvero quelli che intendono promuovere il modello di civiltà occidentale e cristiana, si stanno concentrando sull’immigrazione. L’afflusso massiccio di immigrati – con un particolare riferimento alle correnti islamiste e non moderate – ha dato luogo a una reazione negativa in molte classi sociali, convincendole a spostare il proprio voto dai partiti moderati a quelli più decisi e contrari all’immigrazione. Partiti come la Lega in Italia promuovono i valori della civiltà occidentale, visione filo-cristiana, europeista e filo-occidentale. È importante studiare queste nuove realtà politiche, anche quelle caratterizzate da figure e linee più estreme. Non tutte seguono la stessa metodologia o appoggiano le stesse cause, ma senza dubbio tutte concordano sulla necessità di fermare quella che ritengono essere un’ondata islamista in Europa. I modelli ungherese, austriaco, italiano e anche danese – che fa capo a una sinistra moderata, ma comunque favorevole a restrizioni all’immigrazione – sono tutti diversi e unici, staremo a vedere quale prevarrà. Di certo l’alleanza Lega-M5S sembra essere solo tattica e non strategica, perciò è instabile.

C’è, a suo parere, il pericolo concreto che Paesi esterni al vecchio continente possano sfruttare queste tensioni per orientare l’opinione pubblica e promuovere una propria agenda?

Ad esempio Putin utilizza le differenze interne a partiti e forze europee a proprio beneficio, perché questo è il modo in cui la Russia fa politica estera da sempre. Senza dubbio le operazioni di influenza russe rendono le cose più complicate e polarizzate, ma il trend sarebbe stato questo in ogni caso. La sinistra è concentrata sul cambiamento climatico e sulle tematiche dell’ambiente, mentre la destra sull’immigrazione. Nessuna delle due dà la minima importanza alla tematica portata avanti dall’altro, con il risultato che l’Europa resta immobile su entrambi. Ma per quanto riguarda le influenze estere, un peso importante è dato anche dagli investimenti.

A che tipo di investimenti fa riferimento?

Ad esempio il Qatar è una realtà molto particolare. Dal mio punto di vista è come una sorta di “piccola Cina”, poiché utilizza in Italia e in Europa investimenti economici per creare influenza politica. Credo che gli effetti di questi investimento siano negativi, perché nonostante la “vision” capitalista Doha promuove un’ideologia del tutto islamista, che va dalle corti islamiche nei Paesi occidentali fino all’educazione scolastica di tipo islamico nelle comunità. Direi che l’Europa deve essere cauta in questo.

Parlando ancora di investimenti esteri, in Italia e in Europa si discute molto della presenza cinese e dei progetti infrastrutturali e tecnologici che Pechino intende compiere attraverso la Belt and Road, la nuova via della sete. Che opinione ha di questo progetto?

Senza dubbio la Cina sta utilizzando il proprio potere economico per generare in altri Paesi dipendenza nei suoi confronti. Si parla soprattutto di dipendenza tecnologica, ma è una strategia che prevede anche investimenti in altri settori strategici tra cui fabbriche e porti. È molto preoccupante, specialmente per le prossime generazioni che vivranno in Europa con la maggior parte dei settori sensibili detenuti da Pechino grazie al suo strapotere economico. Senza dubbio consiglio di nuovo cautela all’Europa, più di quanto non si stia facendo adesso.

La ricerca del suo think tank è focalizzata anche sull’evoluzione interna al mondo arabo. Come è cambiato negli ultimi cinque anni il ruolo di potenze regionali come Arabia Saudita, Iran e Turchia?

Il trend generale è che gli Stati arabi si stanno indebolendo, anche se ci sono molte eccezioni. La prima tra queste è il Qatar. L’Egitto e l’Iran sono molto diversi, ma stanno affrontando entrambi un infiacchimento non indifferente. La Turchia invece è forte, ma il suo presidente Recep Tayyip Erdogan è sempre più debole.

L’Italia, per collocazione geografica e non solo, guarda con molta attenzione a quanto accade nel Mediterraneo e in particolare in Nordafrica in Algeria, Libia e Tunisia.

La Tunisia è un caso isolato, sta facendo bene ma non rappresenta un modello riproducibile. Libia e Algeria sono più problematiche e tutto verrà deciso, a mio avviso, dal ruolo e dalla posizione dei militari.

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