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Il numero 6 in Cina è omofono di “fluido” e per questo si pensa che esporlo sia di buon auspicio per far scorrere vie le cose senza intoppi – anche nel business. Però in questo momento il-più-importante-6 per la Cina ha un significato tutt’altro che positivo: i dati del terzo trimestre usciti in questi giorni dicono chiaramente che il Pil cinese è cresciuto solo del 6 per cento. Un altro freno: il secondo trimestre aveva chiuso al 6,2, e i primi tre mesi dell’anno davano un 6,4 – tutti sotto al 6,6 medio del 2018.

Sia chiaro: si tratta di numeri da capogiro per una qualsiasi realtà occidentale. La seconda economia del mondo continua a spingere, lanciata a superare gli Stati Uniti nel 2030, se le previsioni verranno confermate. Ed è piuttosto evidente che, come scrive il corrispondete da Pechino del CorSera, Guido Santevecchi, “la Cina non sta sprofondando, il 6 per cento di oggi vale in termini assoluti molto più del 10 per cento del 2000”. Ma ha i suoi problemi.

La Cina è un’economia in sviluppo da anni, e il rallentamento rappresenta il dato peggiore (in termini relativi) degli ultimi tre decenni. Era un benchmark di riferimento basso nel previsionale del governo fatto per il 2019, quando si pensava a una contrazione rispetto all’anno precedente con paletti fissati tra il 6 e il 6,5.

Chiaramente da Pechino si lima e addolcisce la diffusione della notizia, che ha un valore enorme – sebbene non sorprendente, tanto che il Fondo monetario internazionale ha già rivisto le previsioni di crescita mondiale dello 0,3 per cento, dato che la Cina contribuisce per oltre un quarto alla crescita globale.

L’Ufficio nazionale di statistica cinese spiega alla stampa internazionale che “in termini generali l’economia si presenta stabile”. Una pennellata di ottimismo che però poi cede spazio a un’ammissione: “La gravità delle condizioni all’interno come responsabile, anche in questo caso però edulcorata aggiungendo che quelle stesse condizioni di “gravità” ci sono anche “all’estero” in più “le incertezze e le pressioni al ribasso”.

Le borse del Dragone non si sono fidate troppo delle spiegazioni limitate, Shanghai e Shenzhen hanno chiuso con ribassi moderati, attorno all’1 per cento. Il problema è esterno, come dice il governo, ed è legato al colpo subito dalle esportazioni dalla guerra commerciale ingaggiata dagli Stati Uniti; ma non è da meno quello interno, con la contrazione della domanda, l’inflazione ferma, e diversi settori che dopo fasi di boom ora rallentano; in più ci sono le crisi, da Hong Kong a Taiwan, situazioni di incertezza evidenti in aree strategiche per l’economia.

Secondo il governo tutto è però da ricollegarsi a una fase di riequilibrio e maturazione del sistema, l’economia cinese sta diventando più sofistica – passaggio dall’industria seriale ad altre forme produttive. Gli istituti indipendenti, tuttavia, da tempo sollevano dubbi e credono che in realtà la contrazione è superiore a quella dichiarata.

In più ci sono ipotesi sulle reali capacità di previsione all’interno delle istituzioni, a cominciare dal Partito. È una questione legata al sistema di potere costruito da Xi Jinping: finora la Cina era famosa per non aver sbagliato mai strategie e previsioni, frutto anche di un dibattito interno discreto ma proficuo. Ora Xi ha preso in mano tutto, ha escluso chiunque gli si opponesse per consolidarsi, ma potrebbe aver eroso le capacità funzionali del sistema cinese.

Crepe nella Grande Muraglia. Perché il Pil cinese cresce meno del previsto

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