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“Ho ricevuto in eredità due dei più terribili nemici dell’umanità: la tubercolosi e la malattia mentale. La malattia, la follia e la morte erano gli angeli neri che si affacciavano sulla mia culla”, ha scritto Edvard Munch. È il tratto della sua vita e della sua arte.

La sofferenza è il suo “destino”. Sgomento personale che diventa riflessione universale sulla tormentata essenza della condizione umana. Sempre attuale.

Compagno di vita di Munch il timore costante di malattia e morte. Orfano, a soli cinque anni, per la perdita della madre e lutti prematuri, in una famiglia segnata da fragilità fisica e mentale.

Una straordinaria mostra dal titolo “Munch, il grido interiore”, a Palazzo Bonaparte a Roma fino al 2 giugno, curata da Patricia Berman con la collaborazione di Costantino D’Orazio e organizzata da Arthemisia, racconta la lunga vita dell’artista norvegese (1863-1944) attraverso dipinti e incisioni, lettere e annotazioni.

È il ritorno, dopo circa quarant’anni dall’ultima retrospettiva, dell’autore che venne in Italia per la prima volta nel 1899 e per studiare gli affreschi di Michelangelo e di Raffaello e che, nel 1927, trascorse nella Capitale un mese. “Penso alla Cappella Sistina…Trovo che sia la stanza più bella del mondo”. E, recandosi nel cimitero acattolico romano ritrasse, poi, su tela la tomba dello zio, lo storico Peter Andreas Munch.

Bandite nella Germania nazista come “arte degenerata”, la maggior parte delle sue opere è sopravvissuta, tuttavia, alla seconda guerra mondiale.

Potenti immagini per temi esistenziali, nella mostra romana. Incrocio tra vita e morte, amore e disperazione, disagi fisici e psichici, laceranti vuoti dell’anima. “Con la mia arte ho cercato di spiegare a me stesso la vita e il suo significato, ma anche di aiutare gli altri a comprendere la propria esistenza”, affermava l’artista, in una vita provata anche da alcolismo e ricoveri psichiatrici.

Nel dibattito che prende corpo alla fine dell’Ottocento sulla relazione tra ciò che l’occhio vede e ciò che la mente percepisce, Munch è visionario autore dell’espressionismo e del futurismo del XX secolo, tra gli intellettuali e i bohémien norvegesi.

La sua produzione artistica si nutre del ricordo. Una memoria in grado di rendere visibile l’invisibile e di ascoltare quel “grido interiore” in cui le emozioni filtrano l’esperienza restituendo una percezione autentica della realtà materiale, fino a sostituirla. “Al mattino non vedremo allo stesso modo che alla sera”. Le emozioni e gli stati d’animo sono, per Munch, lo strumento per leggere il palcoscenico del mondo. In una continua ricerca di risposte, sempre inappagata.

“Non dipingo la natura: la uso come ispirazione, mi servo del ricco piatto che offre. Non dipingo ciò che vedo ma ciò che ho visto”. “La natura non è solo tutto ciò che è visibile agli occhi: racchiude anche le immagini interiori dell’anima, le immagini impresse oltre la nostra retina”.

Cento opere, provenienti dal Munch Museum di Oslo, esprimono, nelle varie sezioni tematiche dell’esposizione romana, il messaggio innovativo dell’artista e il coraggio di fondere stile, tecnica e sentire. Il colore è il veicolo sul quale viaggia la poetica di Munch. Contrasti a tinte forti, privi di sfumature. Come i sentimenti. Tra ombre che dilatano drammi, spesso ambientati in spazi interni, di soggetti dai volti fissi verso l’esterno ma ripiegati, invece, sul proprio mondo interiore.

Il confronto con la morte, la solitudine più profonda, è la rappresentazione più potente di Munch. La morte non cessa di esistere e non abbandona mai. Interprete del dolore, ritrae “La morte nella stanza della malata” (1893) nel ricordo della sorella quindicenne Sophie (1862-1877). In una narrazione che evoca smarrimento e vuoto interiore dei familiari, chiusi nella sofferenza e incapaci di comunicare.
Nel lato oscuro dell’amore, la passione si intreccia con la sofferenza, in una sorta di legame tra amore e morte. Le sensuali immagini femminili sono dominanti per una figura maschile che appare vulnerabile. La donna dai lunghi capelli rossi di “Amore e dolore” (1895), opera nota anche come “Vampiro”, avvolge l’uomo in un abbraccio che lo lascia inerme.

L’amore salvifico è, invano, cercato. “I destini degli uomini sono come pianeti. Come una stella che emerge dall’oscurità, brilla per un istante e incontra un’altra stella, uno sfavillio fugace prima di scomparire ancora nell’oscurità. Così un uomo e una donna scivolano l’uno verso l’altra nel fulgore effimero delle fiamme dell’amore, per poi svanire in direzioni diverse. Solo alcuni si congiungono in un grande bagliore, dove possono essere completamente uniti”. Così Munch insegue il rapporto amoroso.
Corpi che si incontrano e si allontanano. Le rappresentazioni pittoriche del “bacio” esprimono passione ma anche l’incubo della gelosia, nei baci che annientano.

Simbolo iconico dell’angoscia del vivere è il capolavoro “L’urlo” (1893), esposto in mostra in versione litografica. E’ l’urlo della natura, sotto il colore rosso del cielo infuocato. “Camminavo lungo la strada con due amici, quando il sole tramontò. Il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai. Mi appoggiai, stanco morto a un recinto. Sul fiordo nero azzurro e sulla città, c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo, infinito, pervadeva la Natura”. Così l’artista racconta l’episodio che ispira la celebre opera, una figura con volto di teschio che emette un grido di sofferenza. L’immagine dell’Urlo, secondo alcuni, sarebbe stata ripresa dall’emoticon con faccina impaurita disponibile sui cellulari.

Dopo la drammatica fine, nel 1902, della tormentata relazione con Tulla Larsen, unica donna che avrebbe potuto sposare, è un ricordo ossessivo a portare sulla tela la disperazione del pittore, con la “Morte di Marat” (1907).

Alcuni autoritratti scandiscono le tappe della sua vita, segnata da una sensibilità che si trasforma in instabilità psicologica. Testimone di se stesso. Dal tradizionale “Autoritratto” (1881) a quello dei tormenti, l’“Autoritratto all’inferno” (1903).

Ma “Il Sole” (1911-1916) è l’energia che rigenera. Colori e linee di un paesaggio onirico che dà senso alla vita. E “La notte stellata” (1922-1924), in una rappresentazione di silenzio e pace, è dispensatrice di promesse. Luminosità nelle tenebre. Metafora di speranza anche nei momenti più bui.

I sentimenti in scena, dunque, nella pittura di Munch. Vita, amore e morte. Inizio e fine di un disperato percorso di solitudine e inquietudine ma anche di passione e speranza. Da leggere nella sua profonda essenza solo con la profondità del cuore. Oggi più che mai.

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I sentimenti in scena nella pittura di Munch. Vita, amore e morte. Inizio e fine di un disperato percorso di solitudine e inquietudine ma anche di passione e speranza. Da leggere nella sua profonda essenza solo con la profondità del cuore. Oggi più che mai. Elvira Frojo ha visitato la mostra ospitata a Palazzo Bonaparte a Roma per Formiche.net

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