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Certe volte la diplomazia ha bisogno di fantasia, ingegno, spregiudicatezza, spiega una feluca ritirata, ormai libera osservatrice di ciò che accade nel mondo, commentando l’annuncio a sorpresa con cui ieri sera Antony Blinken ha dichiarato Israele d’accordo sul cessate il fuoco. Il segretario di Stato gioca d’azzardo, usa toni da ultimatum, anche col rischio di caricare di eccessivo peso questa fase negoziale. Ma prende in contropiede Hamas, che ora è chiamata a un gesto di responsabilità per fermare la guerra, e soprattutto mette spalle al muro il governo di Benjamin Netanyahu.

Tra Washington e Gerusalemme non c’è mai stata intesa in questi 318 giorni i di guerra che hanno seguito il massacro di Hamas del 10/7. Però gli Usa non hanno mai di fatto abbandonato l’alleato Israele — pur dimostrando in vari modi nervosismo e frustrazione per il procedere della guerra, per i suoi riflessi e ovviamente per gli effetti devastanti sui civili della Striscia di Gaza. E però, adesso si avvicina il voto, e per i Democratici c’è la necessità di dimostrare alle proprie constituency (turbati dai quarantamila morti) che l’attenzione alla difesa israeliana (fondamentale per il voto degli ebrei americani) è compensata da azioni concorrete per fermare il massacro (determinante per parlare a tutta una serie di fasce più giovani e leftist che protestano anche durante la Convention di Chicago di questi giorni).

Lo scatto di Blinken è dunque anche (soprattutto?) positivo per la candidata, la vicepresidente Kamala Harris, e il suo vice, Tim Walz. Ma è anche molto importante per dimostrare che l’America è ancora in grado di giocare le sue carte in Medio Oriente, dossier che gli Usa volevano dimenticare e gestire da remoto e su cui  da ottobre scorso invece è tornata determinante la loro presenza. Tanto che Blinken è alla sua nona visita nella regione in questi dovrei mesi, di cui le tre ore di negoziato di ieri con Netanyahu sono un simbolo, davanti alle richieste di rassicurazioni di partner globali come Qatar, Arabia Saudita ed Emirati, a nemici come l’Iran, agli alleati europei e ai rivali totali come Russia e Cina (che provano a giocare le loro carte, evitando il livello d’impegno americano è piuttosto disturbandolo, soddisfatti della concentrazione che il dossier richiede agli Usa).

La mossa di Blinken è ingegnosa (quanto rischiosa) anche perché scarica la questione tregua sul campo avversario, ma pone Netanyahu davanti ai rischi del suo oltranzismo. Hamas sostiene che il premier israeliano cerchi continuamente scuse per continuare la guerra e voglia far saltare i negoziati (in corso da mesi) inserendo clausole per allungare tempi e complicare gli accordi ogni volta che si avvicinano. Da tempo funzionari americani fanno filtrare anonimamente sui media ricostruzioni che in buona parte avvallano questa situazione. Per esempio, l’ultima richiesta è mantenere una presenza militare nella Philadelphi Route, a sud della Striscia, in un territorio ibrido al confine egiziano (eventualità che nemmeno Il Cairo apprezza) e nel corridoio di Netzarim che divide in due l’enclave plaesitnese. Hamas vorrebbe invece un’uscita completa delle forze israeliane dalla Striscia.

Al di là degli interessi (anche personali) di Netanyahu, Hamas resta indecifrabile (a maggior ragione dopo la scelta militarista di affidare la guida dell’organizzazione al guerrafondaio Yahya Sinwar). Qatar ed Egitto continueranno il lavoro ripreso il giorno di Ferragosto e si cercherà di far accettare al gruppo palestinese l’intesa. Ci saranno anche i negoziatori israeliani al tavolo degli incontri, come annunciato da Netanyahu a Blinken.

Non è chiaro però quanto avranno facoltà di muoversi: il rischio è che il primo ministro abbia accetta di stare alle pressioni del segretario di Stato perché poi nei passaggi successivi avrebbe imposto una linea rigida, dunque non negoziale. E però così brucerebbe lo scatto diplomatico di Blinken, e va bene che Netanyahu punti sulla vittoria di Donald Trump, ma le presidenziali non sono state ancora celebrate e uno smacco eccessivo è pericoloso. Anche perché una mancanza di intesa adesso potrebbe sensibilizzare di nuovo l’Iran, che forse per dare un spazio alla possibilità di una tregua (da rivendere come un proprio successo) ha bloccato le operazioni della rappresaglia contro Israele.

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