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Chi pensava che Giuseppe Conte fosse sempre più lontano dal governo da lui stesso presieduto, e che fosse stato investito dal vecchio establishment del compito di contraddire dall’interno il nuovo, dovrà ricredersi. Il discorso tenuto ieri a Davos conferma infatti con nettezza le critiche che ogni giorno, spesso in modo goffo e forse inutilmente rabbioso, il nuovo governo rivolge all’Unione Europea come è adesso, all’euro, alla Francia e all’asse franco-tedesco cementatosi ad Aquisgrana. Un cahier de doléances che, in questo caso è stato presentato in modo razionale e credibile. E anche con qualche colpo ad effetto volto a dimostrare l’incoerenza dell’europeismo degli altri (ad esempio sulla richiesta di un seggio permanente all’Onu per la Germania) e a dare un significato positivo a termini come “populismo” e “popolo” che spesso sono più fraintesi che intesi dalla Midcult dominante.

La cosa più notevole è però che l’intervento ha lasciato a tratti intravedere una strategia geopolitica che, per inesperienza o incapacità, è finora del tutto mancata al governo gialloverde. Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che Conte è riuscito a essere duro nella sostanza ma a conservare, nella forma, l’urbanità dei modi che lo contraddistingue, rispettando le forme che certi consessi richiedono, si può dire che dal suo discorso la posizione dell’Italia esce sicuramente rafforzata.

Agli osservatori esterni indipendenti essa apparirà sicuramente meno velleitaria o mossa da soli interessi elettoralistici (i quali pure e giustamente ci sono con le elezioni europee alle porte). Non c’è dubbio infatti che se il governo vuole durare cinque anni e soprattutto rappresentare qualcosa di non effimero nella storia d’Italia, esso debba darsi sostanza. Ho più volte scritto che le ragioni che hanno portato alla vittoria in Italia e non solo delle forze anti-establishment sono legate a problematiche storiche profonde e bisogni reali maturati negli ultimi anni sia a livello globale sia con le sue particolarità in Italia. La protesta fine a se stessa non ha però un valore duraturo se non si cementa in una visione, per quanto non rigida, della direzione da seguire.

Il compito di Conte, in questa prospettiva, potrebbe essere quello non solo di fare da notaio e in qualche caso da mediatore fra gli spesso contrapposti interessi delle forze alleate. Potrebbe più radicalmente essere quello di promotore di una sintesi che dia una identità precisa alle due forze al potere (anche se la Lega in qualche modo ce l’ha già) e allo stesso governo. Non è dato sapere come evolverà la situazione politica in atto, anche alla luce delle prossime elezioni. Quel che è sicuro è che il consolidarsi della statura politica di Conte non può che far bene sia al “governo del cambiamento” sia all’Italia.

Conte a Davos. Non solo mediatore. Perché può far bene al governo (e all'Italia)

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