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L’inviato americano per i negoziati con i talebani in Afghanistan, Zalmay Khalilzad, ha rilasciato una telegrafica quanto esclusiva intervista pubblicata in queste ore dal New York Times in cui ha annunciato che con il gruppo di insorti islamisti è stato trovato un quadro di accordo pace, che andrà definito nei dettagli nelle prossime settimane, ma che comunque crea i presupposti per il ritiro dei soldati statunitensi schierati nel Paese.

I talebani, in cambio dell’abbandono americano del suolo afghano, garantiranno di impedire l’uso del territorio da parte di gruppi terroristici – la guerra in Afghanistan era infatti nata dopo l’11 settembre del 2001, quando gli Stati Uniti invocarono l’articolo 5 della Nato per la risposta collettiva contro il gruppo che comandava il paese perché dava riparo ai miliziani di al Qaeda, colpevoli della strage del 9/11.

“I talebani si sono impegnati, con nostra soddisfazione, a fare ciò che è necessario per impedire all’Afghanistan di diventare una piattaforma per gruppi terroristici internazionali o individuali” ha detto — il plurale è necessario, perché non solo i qaedisti, ma anche i baghdadisti del Califfato hanno piantato radici nel paese. “Abbiamo una bozza quadro che deve essere arricchita prima che diventi un accordo”, ma “abbiamo avuto sufficiente fiducia”, “abbiamo detto che è necessario chiarire qualche aspetto e che i dettagli devono essere elaborati”.

Si tratta del più importante passo avanti fatto in questi diciassette anni di guerra – la più lunga della storia americana, costata migliaia di vite e oltre 900 miliardi di dollari. Un evento che, come nel caso dell’invasione del 2001 potrebbe cambiare la politica estera americana e permettere alla presidenza Trump di costruirci parte della legacy – sebbene i negoziati siano stati impostati già da una decina di anni.

Domenica l’inviato americano ha aggiornato il governo afghano della parziale intesa raggiunta, tornando a Kabul dopo aver condotto i negoziati conclusivi a Doha (in Qatar, da diversi anni, i talebani hanno aperto una sorta di ufficio diplomatico). Incontri “maratona” li chiamano funzionari americani col Nyt, alcuni durati per otto ore consecutive. Dopo i primi quattro giorni (dovevano durarne due, sono andati avanti oltre il quinto giorno), il gruppo ha nominato rappresentante alla guida della delegazione il mullah Abdul Ghani Baradar, uno dei leader storici e più carismatici, e la scelta secondo alcuni analisti sarebbe servita a dimostrare serietà nei negoziati e volontà di chiudere.

“Vogliamo la pace rapidamente, la vogliamo presto, ma la vogliamo con prudenza”, ha detto il presidente Ashraf Ghani: “La prudenza è importante, quindi non ripetiamo gli errori del passato”, ha detto il capo di stato in un discorso alla nazione appena dopo essere stato aggiornato da Khalilzad. Kabul non vuole rischiare di ritrovarsi di nuovo sola a fronteggiare i ribelli, e gli americani per questo darebbero garanzia di una presenza, con alleggerimento progressivo dei 14mila soldati sul campo, finché i colloqui intra-afghani (governo-talebani) non saranno avviati sulla giusta strada e il cessate il fuoco che inizierà già nella prima fase dell’accordo avrà assunto una dimensione stabile.

I Taliban non vedono con favore la permanenza americana. Vorrebbero che gli Stati Uniti abbandonino il paese già a questo punto, lasciando spazio per i colloqui interni, tramite i quali governo e insorti dovrebbero trovare una quadra sulla gestione di affari delicati come quelli legati all’amministrazione territoriale e ai principi sharitici (quelli che la costituzione esclude, e per questo per gli islamisti è carta straccia).

Ma qui sta il problema: durante questo importante round negoziale non erano presenti esponenti del governo di Kabul perché i talebani si sono rifiutati di parlarci. Per ora definiscono il governo un “fantoccio” con il quale è inutile ogni confronto. Negli ultimi due anni, i talebani sono tornati all’offensiva conquistando aree del paese e mettendo in difficoltà i soldati della coalizione internazionale che sta ancora formando le forze di sicurezza locali.

 

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