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Il processo di redistribuzione della potenza dall’occidente verso l’Asia che ha contrassegnato la seconda fase della globalizzazione ha un suo più piccolo equivalente regionale nel Mediterraneo orientale. Anche qui è in atto da tempo, su scala più piccola, un fenomeno di destrutturazione degli equilibri regionali usciti dalla Guerra fredda e di erosione della capacità statunitense di garantire tanto la sopravvivenza del vecchio ordine geopolitico quanto l’emersione di uno nuovo.

Se da oriente la sfida al potere dell’occidente proviene dalla potenza globale cinese, nel Mediterraneo orientale esso appare prendere le sembianze di un atipico processo di convergenza di tre potenze regionali, come la Turchia, la Russia e l’Iran. Tre Paesi molto diversi e potenzialmente divisi su tutto, ma accomunati da una comune agenda revisionista rispetto alla geopolitica che gli Stati Uniti hanno imposto alla regione a partire dal conflitto iracheno del 2003.

Complice l’inconsistenza geopolitica dell’Unione europea, la Turchia, la Russia e l’Iran hanno agito nello scorso decennio in maniera non coordinata e perseguendo strategie differenti ma, mosse dalle eredità geopolitiche di tre grandi imperi, hanno attuato politiche simbiotiche, dividendosi i ruoli per occupare gli spazi geopolitici creatisi nella regione per effetto della guerra in Iraq, delle primavere arabe, della guerra in Siria. Il capolavoro di questa strana intesa trilaterale è stato il processo di pacificazione in Siria lanciato a Mosca dai ministri degli Esteri dei tre Paesi nel dicembre 2016, esattamente il giorno dopo l’assassinio dell’ambasciatore russo Karlov ad Ankara. L’asse centrale di questo rapporto è rappresentato dal riavvicinamento turco-russo, sviluppatosi tra il 2014 – anno della crisi ucraina – e il 2016, anno del fallito golpe contro Erdogan. Due sono le principali dimensioni della collaborazione tra Mosca e Ankara: quella energetica e quella militare.

La dimensione energetica si basa soprattutto sul progetto di costruzione del gasdotto Turkish stream, l’alternativa solo turca al South stream e che – al pari del Nord stream 2 – rappresenta un tentativo di evitare il passaggio del gas russo diretto in Turchia attraverso l’Ucraina. Il secondo aspetto della strategia di avvicinamento turco-russa è legato alla cooperazione militare e in particolare allo storico accordo raggiunto per l’acquisto da parte di Ankara di due batterie di sistemi di difesa antiaerea S-400 da Mosca, per il quale la Turchia avrebbe ottenuto condizioni di favore come il trasferimento di tecnologia e il finanziamento del 55% dei costi. Erdogan ritiene l’accordo un affare concluso e che non più essere messo in discussione, nonostante le intense pressioni americane.

Gli Usa, oltre a non volere che il sistema missilistico russo venga integrato nel sistema di difesa dello spazio aereo atlantico, non vogliono neanche contemplare la possibilità che i nuovi F-35 che la Turchia riceverà nei prossimi anni possano volare in uno spazio aereo coperto dai radar degli S-400, che potrebbero carpire preziose informazioni. La consegna della prima batteria degli S-400 russi alla Turchia dovrebbe avvenire nei prossimi mesi; considerata la difficoltà di escludere Ankara dal progetto degli F-35, resta incerta quale potrebbe essere la reazione dell’amministrazione Trump. Una parte del Congresso propende per la rigida attuazione del Caatsa (Countering american adversaries through sanctions act) che impone al presidente di sanzionare qualsiasi Paese del mondo che compia transazioni significative con il settore della Difesa russo. Nei prossimi mesi sarà noto come finirà questo ennesimo braccio di ferro tra Washington e Ankara.

Ma la concreta possibilità che la Turchia venga sanzionata dall’alleato americano apre nuovi scenari di crisi dell’Alleanza atlantica e nuove prospettive di collaborazione di Ankara con Russia e Iran, due Paesi contro i quali sono in già vigore regimi sanzionatori sia Usa sia Ue. La Turchia si trova nuovamente in un importante crocevia della propria storia che potrebbe produrre conseguenze non secondarie anche per il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo.

(Articolo pubblicato sulle rivista Formiche N° 147)

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