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Un dialogo col vescovo di San Severo su temi come il lavoro, la famiglia, i giovani, il futuro. Monsignor Giovanni Checchinato ha compiuto il cammino di formazione al sacerdozio nel Pontificio Collegio Leoniano di Anagni, dove ha conseguito il Baccalaureato in Teologia. Ha proseguito gli studi per la specializzazione in Teologia Morale all’Accademia Alfonsiana a Roma. Si è iscritto come dottorando presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma ed ha frequentato un corso di perfezionamento in Bioetica presso l’Università La Sapienza di Roma. È stato ordinato sacerdote il 4 luglio 1981.

Il senso della prospettiva della persona tra diritto individuale e condivisione nella comunità. Su quali fondamenta poggia?

Parto da una riflessione che si sostanzia delle ricerche e delle scoperte della psicologia, a partire dagli studi di Sigmund Freud, che ci mostra la nostra esistenza come una realtà che riceve una dimensione essenziale dalla relazione interpersonale. Quando raggiungiamo la consapevolezza di noi stessi, del nostro essere appunto, ci rendiamo conto che non possiamo prescindere dalla storia che ci ha preceduto e che ci ha in qualche maniera “forgiato”; abbiamo così bisogno di accogliere quella rete di relazioni che ci hanno accompagnato, dal momento del nostro concepimento al qui e ora, farle diventare risorsa, se possibile, e comunque integrarle nel panorama della complessità del nostro essere. Questo punto di partenza che proviene dalle scienze psicologiche lo trovo pienamente illustrato nelle prime pagine del libro sacro per gli ebrei e i cristiani: la Bibbia. La lettura sapienziale che ci offre l’autore della Scrittura ci ricorda come l’uomo sia chiamato all’esistenza in una modalità “relazionale”: l’“in principio” della Genesi non ci fornisce un progetto realizzato da Dio e che si situa “cronologicamente parlando” alle nostre spalle, ma è il progetto verso il quale siamo chiamati con la nostra umanità, è l’ideale verso il quale tendere. L’ideale prospettato dalla Scrittura lega l’esistenza umana alla potenza creatrice di Dio. Questa potenza creatrice ricorda all’uomo che la sua storia è inscritta in una storia che lo precede: il taglio ombelicale ci ricorda infatti che il mondo esiste prima di noi. Questa Parola che chiama all’esistenza l’uomo è una Parola che lo limita: nel linguaggio sapienziale tipico di queste prime pagine della scrittura, si afferma che perché possa esistere l’essere, Dio procede a separazioni successive: “e Dio separò la luce dalle tenebre… e Dio separò le acque che sono sotto il firmamento da quelle che sono sopra il firmamento” (Gen 1, pass.). Questa separazione differenziazione culmina nella separazione dell’umano in maschio e femmina a immagine di Dio, un limite che rimane inscritto nel cuore dell’umano, come promessa di una relazione creatrice nell’amore. L’uomo non può essere creatore se non si accetta limitato, bisognoso dell’altro. Questo significa ancora che non esiste la mia vita senza la vita dell’altro: Significa il rifiuto della opposizione fra individuo e collettività: in questo senso l’espressione “non è bene che l’uomo sia solo” non indica solo la realtà che concerne il rapporto maschio femmina. Significa il riconoscimento degli altri in tutte le dimensioni della loro esistenza concreta perché non solo l’altro non può essere strumentalizzato, ma la verità è che solo l’altro può garantire la mia esistenza. “In effetti, solo quando so riconoscere il suo essere altro da me, l’altro è capace di offrirmi uno specchio attraverso il quale posso riconoscere la mia identità. Senza l’altro io non potrei che naufragare in una immagine fantasmatica di me stesso” (M. De Certeau). Secondo la Scrittura il non accogliere la differenza, l’alterità, rappresenta un regresso verso quel caos primordiale che l’atto creatore di Dio aveva respinto. L’impurità, secondo la Scrittura (come recitano i grandi libri della Torah) è la mescolanza di quello che deve restare separato, è il rifiuto delle differenze e il trionfo dell’indifferenziato: è cioè il disordine, il caos, che si oppone all’ordine della creazione. Visto da un punto di vista differente questo discorso, che rappresenta un ideale, ci ricorda che in verità facciamo fatica ad accettare il nostro essere “limitati”: ed è proprio l’esperienza della frustrazione di fronte al limite che può generare incomprensioni e talora conflitti. “Il bambino che incontra delle resistenze che gli delimitano uno spazio. L’adolescente che si scontra con una generazione già installata e che pretende di organizzare l’avvenire nelle strutture del passato. Primi scontri che precedono tutti quelli che saranno provocati dalla professione, dal matrimonio, dalle relazioni sociali. (…) Esistere significa sì ricevere dagli altri l’esistenza, ma significa anche, uscendo dall’indifferenziazione, provocarne le reazioni; vuol dire essere accettati e aderire a una società, ma anche prendere posizione nei suoi confronti e incontrare dinanzi a sé, come un volto illeggibile e ostile la presenza di altre libertà. Chi sfuggisse questo faccia a faccia, non per questo eviterebbe la paura, inseparabile da ogni scontro, ma rinuncerebbe ad essere, affermando al vento un diritto che sarebbe incapace di far riconoscere. Non si vive senza gli altri. Questo significa che non si vive senza lottare con loro.” (M de Certeau).

Il ruolo della famiglia come agente formativo e luogo di valori. Se ne avverte l’assenza?

Nella misura in cui cogliamo la dimensione “relazionale” dell’essere umano, capiamo quanto sia importante e insostituibile il ruolo della famiglia, nella quale si apprende per “modellamento” l’essenziale utile per la vita. All’interno di una famiglia si attivano relazioni diversificate, e sono le stesse situazioni contingenti che diventano aula scolastica permanente. Generalmente nelle famiglie sono i ritmi dei più piccoli a dare il tempo all’intera famiglia: nessuno pretende che un lattante possa adeguarsi agli orari del resto della famiglia! Non lo insegna nessuno: ma è la stessa struttura familiare che fa accogliere questa “misura straordinaria” nella gestione degli spazi e del tempo della casa comune come fosse una normale ovvietà. Nella famiglia imparo a prendere i miei spazi e a riconoscere quelli degli altri e so che la vita di chi mi sta accanto non mi è indifferente. La frase tanto usata “la mia libertà termina dove comincia quella degli altri” esprime una verità parziale, perché rimanda certamente ad un atteggiamento di rispetto dell’altro che postula il riconoscimento della sua “privacy”, ma piano piano mi conduce alla percezione dell’altro come ad un individuo che è semplicemente “accanto” a me, meramente giustapposto allo spazio che occupo io. Nella famiglia si impara qualcosa di più impostante, che è l’appartenenza, di chi ha a cuore non solo la propria sorte ma anche quella dell’altro: e questo si trasforma in solidarietà, complicità, cura, prossimità. La vicinanza fisica dei corpi all’interno della famiglia alimenta la percezione del “buono” racchiuso nella presenza dell’altro/dell’altra. L’asimmetria dei figli rispetto ai genitori e dei genitori rispetto ai figli così come la presenza “plurale” dei fratelli e delle sorelle insegna la differenza come risorsa e non come minaccia. La percezione di essere inseriti in una storia che ci precede e ci chiede di essere portata avanti, garantita dalle relazioni con i genitori e con i nonni, ci permette di cogliere il senso positivo del nostro essere all’interno di un flusso di vita che ha le sue radici lontane e che ci permette di vivere il nostro presente in modalità più sicure. Queste sono solo alcune delle modalità attraverso le quali la famiglia esprime il suo ruolo di luogo di valore e ambiente di crescita.

L’importanza del lavoro come elemento di emancipazione e base per l’affermazione della dignità umana. Una realtà sempre più in crisi?

Parto con una citazione della enciclica “Laudato si” di Papa Francesco, al n. 124- 126: “Secondo il racconto biblico della creazione, Dio pose l’essere umano nel giardino appena creato (cfr Gen 2,15) non solo per prendersi cura dell’esistente (custodire), ma per lavorarvi affinché producesse frutti (coltivare). Così gli operai e gli artigiani «assicurano la creazione eterna» (Sir 38,34). In realtà, l’intervento umano che favorisce il prudente sviluppo del creato è il modo più adeguato di prendersene cura, perché implica il porsi come strumento di Dio per aiutare a far emergere le potenzialità che Egli stesso ha inscritto nelle cose: «Il Signore ha creato medicamenti dalla terra, l’uomo assennato non li disprezza» (Sir 38,4) … Raccogliamo anche qualcosa dalla lunga tradizione monastica. All’inizio essa favorì in un certo modo la fuga dal mondo, tentando di allontanarsi dalla decadenza urbana. Per questo i monaci cercavano il deserto, convinti che fosse il luogo adatto per riconoscere la presenza di Dio. Successivamente, san Benedetto da Norcia volle che i suoi monaci vivessero in comunità, unendo la preghiera e lo studio con il lavoro manuale (Ora et labora). Questa introduzione del lavoro manuale intriso di senso spirituale si rivelò rivoluzionaria. Si imparò a cercare la maturazione e la santificazione nell’intreccio tra il raccoglimento e il lavoro. Tale maniera di vivere il lavoro ci rende più capaci di cura e di rispetto verso l’ambiente, impregna di sana sobrietà la nostra relazione con il mondo”. Questi semplici passaggi ci aiutano a capire la dignità del lavoro, la sua importanza non solo per il prodotto finale che il lavoro produce, ma anche per la dignità dell’uomo, chiamato a collaborare con il creatore proprio con “l’opera delle sue mani”.

La crescita del Paese attraverso gli investimenti a favore della cultura e della produzione. È possibile?

Riprendo ancora una volta la citazione di san Benedetto che il papa ha usato più volte nell’enciclica Laudato si, per annotare come nel tempo in cui il grande monaco dell’occidente è vissuto, l’esperienza che gli uomini sperimentavano era quella dello smarrimento e della desolazione. La risposta a una tale situazione viene trovata nella esperienza monastica, fatta di preghiera e di lavoro, ma fatta anche di promozione della cultura globalmente intesa. Da questa esperienza di attenzione al ritmo corrispondente alla creazione, nasce un modo di vivere che influenzerà tutto il mondo occidentale: “grazie alla Regola di S. Benedetto: «le comunità benedettine furono la dinamo economica della loro epoca. Erano centri agricoli, di produzione e di conoscenza … all’inizio la loro attività fu agricola, ma ben presto seguirono la strada … per raggiungere l’indipendenza economica, ottenendo i loro primi successi nella pesca, nella lavorazione della lana, nella macinazione del grano e nell’allevamento dei cavalli. Le comunità monastiche erano organizzazioni culturali nelle quali venivano promossi studi ed esperimenti nel campo della manifattura di beni. Nel XV secolo, ormai i monasteri … gestivano attività come la fabbricazione della birra, l’estrazione dei minerali, la molitura del grano, la produzione del ferro e la lavorazione del vetro … Queste comunità “industriali” ed i loro monopoli controllavano l’Europa attraverso dipendenze (“masserie”) … L’efficienza organizzativa è l’eredità che esse hanno lasciato al nostro secolo, alla cui base troviamo alcuni principi benedettini: armonia, lavoro di gruppo e stabilità.” (Q. R. Skrabec jr, La Regola di San Benedetto per il successo negli affari, Hermes Ed., Roma, 2007, 55-56) Comunità monastiche benedettine -e non solo- ci hanno lasciato le copie delle prime edizioni di Cicerone, Virgilio, ed altri autori classici; a loro si aggiunsero successivamente i monaci irlandesi che diedero una particolare spinta alla preservazione della cultura classica, lontana dal cristianesimo, ma preziosa per apprezzare il cammino dell’uomo alla ricerca dell’Assoluto. Tra loro San Colombano che fondò in Lombardia il monastero di Bobbio, che salvò testi di Terenzio, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Persio, Marziale, Seneca, Plinio, Cicerone, Ovidio assieme a Salteri, antifonari, e ogni tipo di codice liturgico che vennero pazientemente ricopiati e decorati. Promuovere la cultura non ha fatto mai male a nessuno! Diversamente, proprio dove regna l’ignoranza, dove l’uomo viene spinto a cogliere di se stesso solamente la sfera pulsionale ed emozionale, dove la cultura della relazione viene abbandonata a favore della cultura individualistica, dove viene promosso il semplicismo nell’affrontamento dei problemi e non si riesce a cogliere la complessità dell’agire umano, qui la barbarie è alle porte.

Il recupero della fiducia nel futuro dei giovani mediante una politica che guardi al domani, anziché al momento contingente…

Parto con una citazione del prof. Franco Nembrini, pedagogista, che esordisce in un convegno così: “Per cominciare vorrei leggere un paio di citazioni che ho trovato bazzicando su internet, e che mi pare possano servire a partire positivamente in questa riflessione. Una dice: “Il nostro mondo ha raggiunto uno stadio critico, non c’è più rapporto tra i ragazzi e i loro genitori. La fine del mondo non può essere lontana”. La seconda: “Questa gioventù è marcia nel profondo del cuore, i giovani sono maligni e pigri, non saranno mai come la gioventù di una volta; quelli di oggi non saranno capaci di mantenere la nostra cultura”. Sembrano due citazioni tratte da un giornale di stamattina, no? Invece la prima è di un sacerdote dell’antico Egitto, 2000 a.C., la seconda è un’incisione su un vaso di argilla dell’antica Babilonia nel 3000 a.C. Per dire che possiamo stare sereni: il problema è antico, ce la faremo anche stavolta. Partiamo con questa fiducia.” (Nembrini F.), Nei giovani c’è un immenso potenziale di bene e di capacità creative: come liberarlo? La citazione ci fa sorridere, ma ci dice un atteggiamento diffuso che sembra pervadere questo nostro tempo, che ahimè, è tanto simile ad altri tempi della storia. La sfiducia proviene a parer mio prima di tutto da un atteggiamento eccessivamente o esclusivamente “materno” che caratterizza le nostre società occidentali: sono tanti gli studi che parlano di una sorta di “evaporazione” della figura paterna nella società e nelle dimensioni educative, basti pensare ai numerosi testi dello psicanalista italiano Recalcati. Ma accanto a questo, esiste una fatica del mondo degli adulti a fare spazio ai giovani: dal mio osservatorio vedo che figure educative che fino a qualche decennio fa accompagnavano i fratelli più piccoli in un cammino di crescita alla fede e alla vita comune (penso agli educatori dell’azione cattolica e ai capi scout) sono sempre più adulte e spesso anziane. Non sono così naif da pensare che questa situazione non dipenda solo da questo ma abbia molteplici cause, però debbo dire che il posto che i giovani non occupano è spesso occupato da un adulto o da un super adulto che non è capace di portare a compimento il suo percorso. Se esiste dunque una generazione che fa fatica a prendersi gli impegni esiste corrispondentemente una generazione che fa fatica a “consegnare ad altri” i propri impegni. Geppe Inserra ha offerto qualche giorno fa una realistica e drammatica valutazione del Nord della Puglia, dove vivo: “Per Foggia e la Capitanata le cose stanno addirittura peggio, come mette in evidenza Smile, istituto di formazione e di ricerca, in un recente studio condotto da Leonardo Cibelli (Breve nota sulle dinamiche demografiche in provincia di Foggia): “Da anni è in corso un processo di declino demografico alimentato da una continua diminuzione delle nascite, accompagnata ad un consistente flusso migratorio. Le dimensioni del declino sono tali da collocare l’area provinciale tra quelle che nel corso degli ultimi 15 anni hanno registrato una più rapida riduzione della popolazione residente.” Certamente occorre uscire dalla tentazione di trovare la ricetta magica che risolva il problema, e accettare ancora una volta la dimensione della complessità del nostro tessuto sociale: “Il mondo reale […] è complesso nel senso che contiene fenomeni eccedenti le capacità di regolazione di cui disponiamo […] L’economia (e posiamo sostituire economia con Formazione, progettazione, società, comunità, relazione ndr) è permeata di complessità intesa sia come problema da affrontare, sia come terreno di sperimentazione e innovazione”. (E. Rullani, 2004) Aumentare però la dose di fiducia da offrire alle giovani generazioni e lasciare qualche spazio in più alla loro creatività e intraprendenza non sarebbe affatto nocivo.

Lavoro e famiglia per guardare al futuro. Parla monsignor Checchinato

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