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Sono trascorsi cento anni dalla nascita di Giulio Andreotti e poco più di sei dalla sua morte; nessuno “storico” ha affrontato con rigore l’analisi di una delle più lunghe e incisive “vite politiche” della Repubblica Italiana, ben sessantasei anni dal 1946 al 2013. Una vita che ha segnato non solo la storia della Democrazia cristiana ma quella della politica e delle istituzioni della nostra Repubblica.

In vero esiste una ampia bibliografia sulla storia della Repubblica che non poteva sottovalutare il peso dei cattolici democratici nella costruzione della democrazia italiana e, in particolare, del partito che, laicamente, ha coinvolto nella lotta politica i cattolici italiani rimasti estranei alla deriva clericale che, salvo in alcuni momenti della “guerra fredda”, non ha preteso di essere il partito dell’unità dei cattolici. Per ragioni diverse, anche a seconda delle stagioni politiche, gli storici contemporanei non hanno ritenuto di dedicare un lavoro di scavo e di analisi della personalità e del ruolo di Andreotti nella storia della Repubblica e della Democrazia cristiana, fuori dalla vulgata dominante che, spesso all’interno del suo stesso partito, non gli ha mai riconosciuto quel ruolo incisivo che gli appartiene nella costruzione dell’Italia moderna. Anche quando ne hanno sottolineata l’intelligenza, l’abilità di governo, la capacità di navigare nei mari turbolenti della società e della politica del nostro Paese con una sovranità limitata e all’interno delle burrasche del mondo bipolare e della Chiesa italiana di Pio XII, di Montini e del Concilio.

Massimo Franco, con la sua biografia di Andreotti (qui l’intervista al giornalista), ha rotto in qualche modo questa vulgata e, con metodo rigoroso, ne è uscito aprendo strade nuove per la ricerche storiografiche. Innanzitutto, Franco analizza l’evoluzione del giovane Andreotti all’interno della vita dei cattolici italiani fino alla nascita della Democrazia cristiana. Sono gli anni della Fuci di Moro e di Andreotti, del rapporto del giovane Giulio con Pio XII, con Montini e, soprattutto, con De Gasperi; è questo ultimo che coinvolge il giovanissimo Andreotti nella nascita del Partito e nelle responsabilità di governo come sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Con la morte di De Gasperi, Andreotti comincia a sperimentare la complessità e la durezza della lotta politica, prima di tutto all’interno del Partito. La vittoria dei “professorini” al Congresso di Napoli, alla vigilia della morte di De Gasperi, diffidenti nei confronti del fortunato romano Andreotti, portano questo ultimo a doversi costruire un proprio ruolo che si misurerà con alterni contrasti e collaborazioni proprio con i vincitori di Napoli. Non dimentichiamo che Andreotti, come ben analizza Franco, entra progressivamente in contrasto con tutti suoi amici del liceo Tasso e della congregazione mariana con la nascita della sinistra cristiana. È la rottura con Rodano e Ossicini dopo tanti tentativi fatti da Giulio per evitare lo strappo tra i suoi amici, Pio XII e Montini. Andreotti, nella DC, si colloca su una posizione difficile di tenuta sulla destra (Franco ricorda che, in una intervista, rifiuta l’etichetta di destra) mantenendo comunque un suo canale di raccordo a sinistra. Andreotti sarà chiaro quando, in otto punti, spiegherà al Vaticano che l’operazione Sturzo era una follia politica da parte della Chiesa perché avrebbe tagliato le gambe alla Dc. Franco racconta che Pio XII lo aveva fatto rimproverare dal cardinale Tardini ma, come nel 1943 in una prima fase con i giovani della sinistra cattolica, gli dava ragione. Uscendo dalla vulgata prevalente, occorrerebbe rileggere i documenti di diversi archivi disponibili, a partire proprio da quello di Andreotti, e andrebbe ricostruito il ruolo di Andreotti all’interno delle strategie del partito di cui sono “interna corporis”. Si potrebbe partire dal congresso di Firenze del 1959 nel quale i voti di Andreotti furono determinanti per la vittoria di Moro, affrontando due nodi della storia della nostra repubblica: il centro sinistra e la solidarietà nazionale.

Nella storia del centro sinistra si colloca il governo (il “triciclo” Dc, Psdi, Pli) di Andreotti e la tenuta sulla destra (a destra contro la Destra) e i tentativi golpisti. Franco ricorda il discorso di Andreotti alla Camera del febbraio 1972. “Era una fotografia inquieta dei ceti medi risucchiati verso l’estrema destra: sia quella parlamentare che quella violenta ed eversiva. […] Da presidente del Consiglio vedeva una pericolosissima involuzione. La gente doveva non essere distolta dalle vie del rispetto della Costituzione per non cadere in errori eversivi forse irreparabili. […] La fine della libera uscita era cominciata, Andreotti li richiamava in modo pesante. Appena si aprì il dibattito sulla fiducia, il governo chiese l’autorizzazione a procedere contro Almirante per ricostituzione del Partito fascista. La risposta alla logica del 7 maggio lo spostamento a destra del Paese era questa. […] Il governo Andreotti, disse Almirante, nasce con l’esclusione dei socialisti non per obbedire alla svolta a destra, chiaramente indicata dagli elettorato, ma per essere più libero di combattere contro la destra nazionale”. Gli storici dovranno rigorosamente ricostruire le sue iniziative nei confronti del terrorismo nero, nella scia di quanto ha fatto Franco con il suo saggio. Questa ricostruzione potrà contribuire anche a far luce su un’altra questione quella della P2 anche nei suoi risvolti internazionali.

Al momento della crisi definitiva del centro sinistra organico, dopo che De Martino aveva dichiarato che i socialisti non avrebbero partecipato ad alcun governo senza i comunisti, subito seguito da La Malfa, vennero a intrecciarsi le due strategie di Moro ed Andreotti. Scriveva Andreotti nei suoi diari: “Moro mi ha parlato oggi con una apertura che dopo i tempi della Fuci non avevamo più avuto fra noi”. Gli aveva chiesto di guidare il governo per “coinvolgere in qualche maniera i comunisti. Un anno prima, da presidente del gruppo democristiano alla Camera, Andreotti aveva firmato una risoluzione insieme a Nilde Jotti, sua omologa per il Pci, che definiva i punti strategici della politica estera dell’Italia: alleanza atlantica, Europa, ombrello atomico americano. Giustamente Franco sottolinea che “la mente morotea aveva creato una trinità politicamente quasi divina”. A piazza del Gesù c’era Zaccagnini, alle sue spalle lo stesso Moro e “a palazzo Chigi c’era Andreotti, l’eterno macchinista di quello strano treno che percorreva anni infidi , avendo come compagno di strada il nemico storico”. Melloni, il vignettista dell’Unità ed ex-democristiano, diceva io non vado d’accordo con Andreotti su nulla ma devo riconoscere al tempo stesso che “mi piace perché ha capito tutto”. E, proprio per questo, era cresciuta – nel mondo politico italiano, nelle élite economiche e finanziarie e nell’opinione pubblica – una insofferenza verso Andreotti e il suo realismo, quello di chi si occupa soltanto di repubbliche che esistono e non di quelle che non sono mai esistite e mai esisteranno. Ricordo che, nel 1978, mi chiese di andare negli Usa e raccontare al quartier generale della diplomazia americana che cosa era la solidarietà nazionale. Mi pregò di attenermi al pallottoliere per dimostrare l’inesistenza di alternative e quindi la bontà della scelta fatta dalla Dc. E questo non valeva solo per la politica domestica, il parlamentarismo e la vita del suo partito, ma valeva soprattutto in tema di scelte strategiche internazionali. Rileggendo il suo pensiero strategico si ritrova l’Andreotti atlantico – americano ma, al tempo stesso, lo statista mediterraneo attento a favorire la necessaria convivenza pacifica tra sciiti e sunniti, tra laici e religiosi e anche tra religioni diverse. Questa visione lo portò, da ministro degli Esteri a proporre insieme a Craxi, al Vertice europeo di Venezia, di riconoscere che l’Olp era l’unico rappresentante dei palestinesi.

Lentamente, oggi, comincia a farsi strada la necessità di studiare la figura di Andreotti nella storia della Repubblica, il politico sulla breccia per sessantatre anni ininterrotti, andando oltre la vulgata della stampa e il silenzio degli storici e, soprattutto, la caricatura a cui si è ricorsi per demonizzarlo. Alla analisi storica resta affidata l’approfondimento anche delle pagine più delicate.

Una domanda a conclusione di questa breve nota: perché non aver deciso di ricordare e studiare, in questo 2019, Andreotti? “Ad un secolo dalla nascita, Andreotti, la sua politica le sue ombre, la sua Italia, l’intero mondo, appartenevano a un’altra era. L’organizzazione tormentata e un po’ catacombale di quel centenario dimostrava solo l’incapacità tutta italiana di emanciparsi dal passato, analizzandolo con gli occhi della storia. Il Paese della cultura della scorciatoia stava affondando nelle proprie furbizie”.

Andreotti

Riscoprire Andreotti con gli occhi della storia. Oltre la vulgata della stampa e i silenzi degli storici

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