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Accantonata la improbabile idea di una uscita unilaterale dall’Euro, l’attuale dibattito politico-economico si è concentrato sulla questione del comportamento da tenere ai tavoli europei. In sostanza, dovremmo battere malamente i pugni sul tavolo pronti anche ad un duro scontro con i partner europei? O dovremmo piuttosto mediare diplomaticamente per ottenere un ammorbidimento del rigore così da stimolare la nostra crescita ancora asfittica? Una cosa è certa: una volta deciso di rimanere nell’Euro, appare fondamentale raggiungere al nostro interno quella coesione sugli obiettivi economici che ci consenta poi di rappresentare con fermezza a Bruxelles le nostre esigenze e le nostre peculiarità.

Tuttavia, la strategia da adottare in sede europea non può prescindere dall’esistenza oggettiva di alcuni fattori di rischio che dovrebbero farci riflettere sull’opportunità di lanciarci in uno scomposto e velleitario assalto all’arma bianca contro mezza Europa. Il primo di questi fattori che dovrebbero consigliarci una certa prudenza riguarda il nostro debito pubblico. Purtroppo questo fardello da 2300 mld (132% del nostro Pil) non dà segni di cedimento. Anzi, le politiche sociali espansive comprese nel programma, prima di riuscire a stimolare i consumi, genereranno inevitabilmente ulteriori pressioni sullo stock del debito in essere.

Il problema è che questo mostro rende comunque il nostro equilibrio economico – finanziario instabile e vulnerabile ad eventuali shock esterni. E, certamente, in questi periodi, variabili esogene potenzialmente pericolose non mancano certo: i dazi di Trump che potrebbero costarci già da quest’anno uno 0,3% del PIL, la Brexit, il deterioramento della situazione in Argentina e Turchia, il caos libico, le tensioni con la Russia etc etc. Tra l’altro, giova ricordare che il nostro stock di debito è composto per ben 1800 mld da BTP e CCT che rappresentano la componente più esposta al rischio di una impennata dei rendimenti da shock esogeno.

Il secondo fattore di rischio, strettamente collegato al punto precedente, riguarda lo stock di titoli pubblici ospitato nel bilancio delle nostre banche. Qui il grosso problema per il nostro Paese è che circa 380 mld di BTP sono saldamente detenuti nelle pance delle nostre banche. Da evidenziare, tuttavia, che è semplicistico incolpare i nostri istituti di aver approfittato dei momenti di tensione per fare il pieno di titoli ad alto rendimento incuranti del rischio connesso. In realtà, il nostro sistema bancario ha raddoppiato la quota di titoli di stato tra il 2011 ed il 2012 (da 200 mld a 400 mld circa) perché in quei momenti drammatici era indispensabile fugare ogni minima incertezza sulla capacità dell’Italia di onorare puntualmente le scadenze previste sul proprio debito pubblico. Il punto è che oggi questa massa di BTP detenuta dalle nostre banche si sta trasformando da ancora di salvataggio in un boomerang che potrebbe colpire il nostro sistema bancario impedendogli di supportare al meglio il sistema produttivo. Infatti, Germania ed accoliti sono tornati a puntare l’indice contro le banche “mediterranee” (in particolare italiane e spagnole) colpevoli di essere troppo vulnerabili al connubio rischio banca-rischio sovrano.

In realtà il problema era stato affrontato già nel 2016 quando un rapporto della Presidenza di turno olandese aveva ipotizzato anche la possibilità di imporre agli istituti un tetto fisso alla detenzione di titoli sovrani (si era parlato del 25% del patrimonio della banca). Tanto per dare una idea delle conseguenze della proposta, Mediobanca Securities stimò allora che, applicando questo tetto, le principali banche italiane avrebbero dovuto scaricare circa 150 mld di titoli di stato con forti ripercussioni sulla solidità patrimoniale degli istituti stessi. Allora la minaccia fu fermata, ma oggi le pressioni tedesche si sono di nuovo rafforzate. Da evidenziare, a questo riguardo, che la grande attenzione dei tedeschi sul problema in esame, come accade spesso, non ha solamente motivazioni economiche, ma anche politiche.

Infatti, persiste in Germania la necessità di tranquillizzare quegli elettori spaventati dalla prevista introduzione di una garanzia unica europea sui depositi bancari in presenza di banche “mediterranee” legate a doppio filo al rischio sovrano del proprio Paese. Il terzo fattore di rischio è connesso all’ormai inevitabile venire meno degli stimoli monetari varati dalla Bce di Mario Draghi per accelerare la ripresa (Quantitative Easing- QE). Qui il rischio per l’Italia è che l’ area teutonica, approfittando dei deboli segnali di ripresa prema per una uscita troppo rapida dal Quantitative Easing. Per noi le conseguenze potrebbero essere pesanti perché una riduzione non equilibrata degli interventi monetari genererebbe pressioni al rialzo sui tassi tali da rendere più difficile ed oneroso per le nostre aziende l’accesso al credito bancario. Il tutto, tra l’altro, in uno scenario ancora caratterizzato da una ripresa asfittica e discontinua.

Ma, soprattutto, venendo meno il Qe che prevede la possibilità per la Bce di acquistare sul secondario titoli pubblici a sostegno dei partner europei, verrebbe anche meno quel paracadute che ci ha più volte protetto da turbolenze e attacchi speculativi dagli esiti assolutamente imprevedibili.

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