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Ogni ipotesi di ritiro non può prescindere dalla concertazione con gli alleati. È il messaggio del sottosegretario alla Difesa in quota Lega Raffaele Volpi da inserire nel dibattito sulla missione in Afghanistan, riesploso negli ultimi giorni. Lunedì scorso, il ministro Elisabetta Trenta ha dato disposizione al Comando operativo di vertice interforze (il Coi) di valutare la pianificazione per un ritiro completo dei 900 militari italiani presenti nel Paese, con un orizzonte temporale che “potrebbe essere quello di 12 mesi”.

LA MISSIONE ITALIANA

“È giusto specificare che, nella complessiva programmazione, da tempo determinata e condivisa con gli alleati, per il nostro contingente è già prevista una riduzione di duecento unità”, ha notato Volpi, facendo riferimento a una rimodulazione annunciata dalla Difesa e in linea con un ripensamento della postura militare nazionale. D’altra parte, ha aggiunto il sottosegretario, “il nostro Stato maggiore della Difesa e le nostre Forze armate, con la loro alta professionalità, periodicamente analizzano gli scenari e le relative opzioni strategiche rendendole contemporanee al mutamento degli scenari stessi e disponibili continuativamente”. Ciò riguarda anche il contributo italiano alla missione Nato Resolute Support, che attualmente impegna 900 militari con l’obiettivo di offrire supporto e addestramento alle Forze afgane nell’intero quadrante occidentale.

I PIANI DI RIMODULAZIONE

La rimodulazione in questione è stata annunciata ma non ancora prevista a livello normativo. Non si conosce difatti ancora il contenuto del decreto missioni per il 2019, quello che darà copertura finanziaria e giuridica a tutti gli impegni all’estero dei nostri militari. Nell’ultimo provvedimento, relativo al trimestre finale del 2018, il totale complessivo dei soldati scendeva di 100 unità proprio per l’effetto, a detta della maggioranza, di una prima riduzione del contingente afgano.

CONCERTARE CON GLI ALLEATI

Su tutto questo, ha sottolineato Volpi, “la complessiva valutazione, in particolare nel medio-lungo periodo, non è certamente avulsa dalla necessaria concertazione con gli alleati, come la Nato e l’Ue”. Ciò riguarda anche “le opzioni che insieme a loro potranno essere definite come missioni prioritarie condivise tra le sensibilità della comunità internazionale e gli interessi nazionali del nostro Paese”, opzioni pure riferibili “a scenari che ci vedono geograficamente vicini ed in prima fila per esperienza e capacità”. Il riferimento è al Mediterraneo allargato, a partire dalla Libia e dal Niger, su cui da tempo l’Italia prevede un potenziamento delle proprie proiezioni. È in tal senso che va interpretata la “rivalutazione complessiva” delle missioni internazionali prevista dal contratto di governo, cioè come un ripensamento in linea con gli interessi e gli obiettivi considerati più vicini.

IL RUOLO DEL PARLAMENTO

“Resta sottinteso, come noto – specifica Volpi – che qualsiasi rimodulazione del nostro impegno internazionale dovrà essere approvato dal Parlamento che è, e rimane, elemento centrale del nostro sistema democratico”. Lo stesso era stato evidenziato dal ministro Trenta, che nei giorni scorsi ha rivendicato la piena legittimità della richiesta al Coi anche di fronte alle insofferenze manifestate dal ministero degli Esteri per non essere stato avvertito prima che la notizia uscisse sulla stampa. “Se chiedo al Coi di valutare, e sottolineo valutare, l’avvio di una pianificazione per il ritiro non credo di dover informare il ministro Moavero, perché rientra nelle mie prerogative”, spiegava al Corriere la titolare di palazzo Baracchini al Coi.

IL PARERE DEGLI ESPERTI

Tra l’altro, la valutazione della Difesa sarebbe legata al recente accordo raggiunto tra gli Stati Uniti e i talebani per un processo di pace in Afghanistan, e si inserirebbe dunque in un ridimensionamento dell’intero impegno internazionale nel Paese, con l’amministrazione Trump pronta a portar via almeno metà contingente. Su questo, tuttavia, sono emerse diverse preoccupazioni. La situazione in Afghanistan “è tutt’altro che pacificata”, ci ha spiegato il generale Marco Bertolini, già comandante del Coi e capo di Stato maggiore della missione Isaf. Un ritiro di tutte le forze “renderebbe la situazione ancora più ingarbugliata”. D’altra parte, se il ripiegamento italiano fosse unilaterale, “sarebbe per noi un’operazione di perdita”, soprattutto per quanto riguarda la credibilità politica acquisita nei 17 anni di missione (e quella che “non siamo stati in grado di sfruttare”).

I RISCHI

Anche per il generale Vincenzo Camporini, vice presidente dello Iai, “un’interruzione immediata rischia di non essere troppo saggia”, soprattutto se si basasse sul solo accordo tra Usa e talebani, in cui non è stato coinvolto il governo di Kabul. Secondo Andrea Manciulli, presidente di Europa Atlantica, esperto e studioso di terrorismo, l’uscita dell’Occidente dall’Afghanistan “non è realistica”. Difatti, “i vicini chiedono che ci sia un graduale rafforzamento della dimensione statale afgana attraverso una presenza occidentale: non si esce da un giorno all’altro perché all’improvviso si rischia di trovarci di fronte a una centrale strategica del jihadismo, cioè a tutto ciò che abbiamo cercato di combattere in questi anni”.

Il ritiro dall'Afghanistan va condiviso con gli alleati. Il punto del sottosegretario Volpi

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