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Qualche giorno fa, il ministero degli Esteri canadese ha condannato l’incarcerazione di alcune attiviste per i diritti delle donne saudite ordinata dal governo di Riad. Lo ha fatto con un breve tweet che ha però scatenato una rottura diplomatica tra Canada e Arabia Saudita.

Il ministero di Ottawa, guidato da Chrystia Freeland (ex famosa editorialista del Financial Times), ha chiesto il rilascio immediato di Samar Badawi e di tutti gli attivisti che in Arabia Saudita combattono per i diritti umani e che sono stati messi sotto custodia dal governo.

Almeno da maggio di quest’anno – ma anche negli anni precedenti – dozzine di attivisti sauditi sono finiti dietro le sbarre per le loro azioni nella richiesta di maggiori diritti: il regno è tutt’altro che un paese aperto, nonostante Mohammed bin Salman, il nuovo erede al trono, in giro per il mondo sia riuscito a conquistarsi la descrizione di una sorta di leader anti-establishment (premio ottenuto anche attraverso grandi operazioni di – più o meno – soft power in giro per il mondo), che sta rivoluzionando il suo paese su temi come i diritti civili e umani.

L’Arabia Saudita resta un regno autoritario e conservatore, basato su un’interpretazione della religione islamica piuttosto rigida e dove il dissenso finisce punito anche con la pena di morte. Ci sono certamente passi in avanti, spinti da bin Salman (il voto e il diritto alla guida per le donne, per esempio), che servono soprattutto a supportare a livello sociale – sia in un’ottica interna che in proiezione estera – “Vision 2030”, il grande piano di riforme finalizzato fondamentalmente a differenziare l’economia saudita dal petrolio, a cui quella sorta di rivoluzione sociale dà una dimensione non solo economica.

Ma il giovane sovrano s’è dimostrato lo stesso intollerante al dissenso in più di un’occasione e ha condannato (senza procedure processuali limpide) dozzine di critici, tra cui intellettuali, giornalisti e anche altri sostenitori dei diritti delle donne.

E inoltre, con la campagna militare contro i ribelli separatisti filo-iraniani in Yemen, frutto di una politica anti-Teheran in cui i sauditi hanno seguito gli alleati eniratini, ha dimostrato spregiudicatezza. I raid aerei sauditi hanno spesso colpito obiettivi civili, sia per errore che per foga d’azione — a dispetto dell’alta tecnologia Made in Usa di cui dispone il regno. Nei giorni scorsi, in una delle pagine più buie dei tre anni di conflitto (e oltre 10mila morti), l’aviazione di Riad ha centrato per errore uno scuolabus a Saad, governatorato lungo il confine tra Yemen e Arabia Saudita. La campagna militare ha sollevato accesse proteste delle organizzazioni umanitarie; più tiepida, in linea generale, la reazione dei governi. Alle critiche a Riad si è facilmente passati a Washington, colpevole di continuare a fornire armi (e assistenza informale) a un’operazione che non ha troppi scrupoli e discriminazioni degli obiettivi.

Qusto il contesto generale delle ambiguità di bin Salman. Tornando allo specifico della reazione del Canada dopo gli arresti, il ministero di Freeland è sembrato collegarsi in modo diretto all’incarcerazione di Badawi. Chi è l’attivista? È piuttosto nota a livello mondiale (famosa una sua foto tra Michelle Obama e Hillary Clinton, in un momento in cui i rapporti tra Washington e gli amici del Golfo non erano eccezionali come adesso), è la sorella del blogger Raif Badawi (che come lei ha lavorato contro la monarchia saudita (e per questo è stato pesantemente condannato con dieci anni di prigione e mille frustrate), è un volto famoso su cui il governo canadese può giocare le proprie visioni.

Visioni che lo stanno facendo diventare l’hub globale del pensiero liberal: e sotto quest’ottica, l’operazione di Freeland (nomen omen, si direbbe con una boutade da quattro soldi, ndr) è per certi versi spin politico, ma forse ha preso dimensioni superiori a quelle previste.

Lunedì, il ministero per gli Affari esteri saudita ha comunicato attraverso alcuni tweet di aver preso la decisione di espellere l’ambasciatore canadese e di aver richiamato in patria il capo della diplomazia in Canada, per protestare contro quelle che vengono definite “interferenze” del governo canadese negli affari interni di Riad. Addirittura è stato chiesto il rientro ai cittadini sauditi in cura negli ospedali canadesi e ai sedici mila studenti che il regno ha mandato a studiare nel paese nordamericano: una misura straordinaria, nemmeno fosse in atto un colpo di stato.

I sauditi hanno anche messo in vendita i propri asset canadesi: fonti interne all’esecutivo di Ottawa hanno raccontato al FT (non a caso, ndr) che da martedì stanno assistendo a un sell-off. La banca centrale saudita e i fondi pensione statali avrebbero incaricato i loro gestori patrimoniali esteri di cedere azioni, obbligazioni e liquidità canadesi “a prescindere dal costo”, ossia senza tener conto di eventuali perdite. Congelati anche nuovi scambi commerciali e investimenti con il Canada.

La vicenda con il Canada è interessante perché nella reazione violenta saudita c’è un messaggio verso l’esterno: la forza economico-finanziaria di Riad è uno strumento politico, con cui il regno può mostrare i muscoli verso chiunque intenda intromettersi nei proprio affari interni. Ora i sauditi marcano un segno: la questione dei diritti umani è uno di quegli affari interni su cui non si tollerano interferenze.

Usare il Canada è funzionale per Riad, perché riesce a mostrare fermezza e aggressività con un paese importante – membro del G7 – ma che non ha il peso politico internazionale diplomatico di altri; per capirci, non avrebbe potuto fare altrettanto con l’Ue, o con gli Stati Uniti, o con Cina e Russia. Il Canada è per altro una nazione con cui l’Arabia Saudita ha interscambi commerciali non troppo consistenti.

Di più: dopo l’ultima riunione del G7, il Canada – e personalmente il suo premier Justin Trudeau – è entrato in rotta di collisione con la Washington trumpiana, e questa è una sponda ulteriore, perché Riad si sente tranquillamente legittimata a usare le maniere forti con Ottawa, sapendo che gli americani non ne saranno troppo scomodati.

E Washington ha fatto già sapere di non essere interessato a mettersi in mezzo nella disputa.

In un fondo, l’Editorial Board del Washington Post ha definito “deprimente” la posizione presa dal dipartimento di Stato americano – che ha testualmente detto: “Non possiamo risolvere [la situazione] al loro posto”. “È il ruolo tradizionale degli Stati Uniti quello di difendere i valori universali ovunque siano calpestati e di mostrare agli autocrati prepotenti che non riescono a cavarsela nascondendo il loro lavoro sporco dietro porte chiuse”, continua il consiglio editoriale del WaPo – con una presa di posizione importante perché destinata a segnare una parte di pensiero pubblico.

Il giornale elogia il coraggio canadese, chiede che ogni paese del G7 retwitti il post della discordia, e critica gli americani che si girano dall’altra parte per non intaccare gli interessi costruiti con i sauditi. Ma in realtà Ottawa sembra che stia cercando aiuto per risolvere rapidamente la disputa: Germania e Svezia sono state contattate discretamente secondo il sito di news governativo Voice Of America.

Berlino e Stoccolma sono già passati sotto un’analoga scure saudita, e per questo Freeland avrebbe cercato contatti tra le diplomazie dei due paesi europei per ottenere consigli su come risolvere la situazione – anche se Trudeau continua a mostrarsi risoluto.

(Foto: Chrystia Freeland e Justin Trudeau)

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