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In un’eccezionalità per questi sette anni di conflitto, nella notte tra domenica e lunedì, Israele ha rivendicato alcuni attacchi contro il territorio siriano. L’account Twitter dell’IDF, Israel Defense Force, ha prima avvisato che lo stato ebraico stava avviando un bombardamento contro “target della Quds Force” in Siria, e poi ha diffuso varie spiegazioni dell’operazione, con tanto di immagini.

Il contesto: Israele almeno dal 2013 ha iniziato a colpire la Siria in via clandestina. Centinaia di attacchi aerei mirati che negli anni hanno avuto come obiettivo i luoghi in cui le forze armate iraniane passano armi ai guerriglieri delle milizie sciite. Questi gruppi politico-militari si trovano in Siria perché, su richiesta di Teheran, sono intervenuti a puntellare il regime di Bashar el Assad, amico dell’Iran. Sono realtà armate che si sono mosse dall’Iraq, dall’Afghanistan, alcune (poche) create autoctone, e soprattutto dal Libano. Il contributo dei libanesi di Hezbollah – un gruppo che è considerato un’organizzazione terroristica da Stati Uniti e Europa – è stato fondamentale per salvare Assad e renderlo il capo di stato potabile che sta diventando.

L’Iran ha sfruttato il caos generale del conflitto civile siriano per armare questi gruppi con un doppio fine: da una parte hanno difeso Assad, dall’altra – e questo è il caso degli Hezbollah – avrebbero potuto immagazzinare quelle armi all’interno dei propri arsenali per usarle in seguito contro Israele; l’odiato stato ebraico, visto come nemico esistenziale dai chierici sciiti che governano l’Iran e movimentano i gruppi regionali collegati (oggi, il comando delle forze aree israeliane, molto vicino alla linea teocratica del potere iraniano, ha detto di essere pronto per procedere “all’estinzione” degli israeliani).

Oltretutto, Hezbollah è tecnicamente ancora in guerra con Israele dal 2006, e negli ultimi mesi Tel Aviv ha lanciato contro il gruppo un’operazione per distruggere i tunnel costruiti al confine – infrastrutture che avrebbero fatto da testa di ponte sotterranea infiltrare clandestinamente i miliziani sul suolo israeliano nel caso di conflitto.

Israele come linea di protezione per la propria sicurezza nazionale bombarda i luoghi in cui avvengono questi scambi di armi. Di solito queste operazioni sono silenziose, mai commentate dall’IDF o dal governo (anzi: sempre negate), ma questa volta sono state rese pubbliche. Prima era successo solo raramente: per esempio, qualche mese fa s’era reso necessario perché al rientro da un raid un F16 israeliano era finito in panne sotto i colpi della contraerea siriana ed era precipitato, e dunque c’erano le prove provanti dell’attacco.

Questi scambi d’armi avvengono, per logistica favorevole, soprattutto attorno a Damasco perché nelle altre aree della Siria non c’è ancora sufficiente sicurezza. Sono un rituale che va avanti da più di un lustro, e il fatto che nonostante vengano colpiti con continuità non vengono bloccati significa solo una cosa: gli iraniani sanno che ancora riescono a passare agli Hezbollah più armi di quelle che Israele riesce a intercettare. Ma, come ha detto stamattina all’alba l’IDF “continueremo a operare risolutamente per contrastare questi tentativi”.

Un altro elemento nuovo dell’ultimo giro di raid, è anche la risposta pesante iraniana dalla Siria. L’esercito israeliano dice che le Quds Force (che sono l’unità d’élite dei Pasdaran e hanno un nome programmatico: Quds significa “Gerusalemme”, la cui epica conquista è l’obiettivo escatologico della loro esistenza) hanno risposto a un attacco avvenuto in precedenza, sparando dozzine di missili terra-terra dalla Siria, e questo dimostra, spiegano i militari di Tel Aviv, che l’intento dell’Iran è trasformare la Siria in una piattaforma armata avanzata contro lo stato ebraico.

Nella spettacolarizzazione di questo scambio di colpi – tipicamente israeliana, uno stato che per ragion d’essere ha dovuto rendere l’esercito una parte integrante del sentimento pubblico, e non a caso viene chiamato con un nome proprio, Tsahal – uno dei video diffusi dall’IDF è stato girato da una go-pro di uno sciatore, che sui cieli del Golan ha ripreso un’intercettazione del sistema di difesa Iron Dome contro un missile iraniano. Il senso profondo è: cittadini, siete al sicuro, lavoriamo per voi.

“Siamo preparati per tutti gli scenari e continueremo ad operare come necessario per difendere i civili israeliani”, ha commentato l’esercito di Tel Aviv. Nelle ultime settimane sia il premier Banjamin Netanyahu che il capo delle forze armate Gadi Eisenkot, hanno parlato pubblicamente della strategia di contenimento anti-Iran che Israele sta adottando sulla Siria. Possibile che sia un messaggio diretto e aperto all’Iran, che però difficilmente tornerà indietro su una linea seguita da anni.

Possibile anche che Israele abbia la necessità di marcare la propria posizione in questa fase caotica che riguarda il conflitto siriano, con gli Stati Uniti che dovrebbero uscire dal paese col rischio di venir meno a quel ruolo di bilanciamento degli equilibri con l’Iran (e la Russia) che il dispiegamento delle truppe americane anti-IS hanno svolto finora. Nei giorni che sono seguiti l’annuncio sulla ritirata (il 19 dicembre), l’amministrazione Trump ha cercato di rassicurare lo stato ebraico (e gli altri partner regionali), ha fornito avallo e garantito copertura politica alle operazioni israeliane, ha promesso che un contingente americano resterà in Siria per monitorare le attività dell’Iran. 

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