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“Tentativo di destabilizzazione”. Così il governo del Ciad ha definito quanto avvenuto nella notte tra mercoledì 8 e giovedì 9 gennaio, quando un gruppo di circa ventiquattro uomini armati ha cercato di assaltare il palazzo presidenziale a N’Djamena. Durante l’attacco sventato dalle forze dagli uomini di guardia al palazzo sono state registrate almeno venti vittime, tra cui diciotto assalitori e due dei membri della guardia del palazzo, secondo quanto riferito alla televisione nazionale Télé Tchad dal portavoce del governo Abderaman Koulamallah.

Secondo le prime ricostruzioni, gli assalitori sono arrivati a bordo di uno o due veicoli, fingendo un guasto vicino all’ingresso del complesso presidenziale, per poi attaccare con coltelli e machete le guardie presenti. Le forze di sicurezza hanno risposto con decisione, neutralizzando diciotto degli aggressori e catturandone sei, che sono ora sotto custodia. La rapida reazione delle forze presidenziali, definita “decisa ed efficace” dall’esperta del Crisis Group Enrica Picco, indica che il palazzo era già in stato di allerta. La natura esatta dell’attacco rimane per il momento incerta, con il governo lo ha definito un “atto isolato e disperato”, escludendo inizialmente una matrice terroristica. Alcuni analisti suggeriscono che potrebbe essere legato a tensioni etniche o al malcontento per la gestione del conflitto nel vicino Sudan.

L’attacco arriva in un periodo delicato per il Ciad, un paese che svolge un ruolo pressochè strategico nella lotta contro i gruppi jihadisti nella regione del Sahel, ma recentemente in rotta con i suoi alleati occidentali. Lo scorso anno, il governo ha interrotto accordi di cooperazione con la Francia e gli Stati Uniti, segnando un distacco dalla tradizionale alleanza con l’Occidente. Nel frattempo, paesi vicini come Mali, Burkina Faso e Niger hanno iniziato a collaborare con la Russia, aumentando le pressioni su N’Djamena. Il presidente Mahamat Idriss Déby, salito al potere nel 2021 dopo l’uccisione del padre, sta affrontando crescenti sfide interne e regionali. Il Ciad ospita oltre 700.000 rifugiati provenienti dal Sudan, teatro di un sanguinoso conflitto civile. Nel frattempo, il paese deve fare i conti con attacchi di Boko Haram nella regione del Lago Ciad.

La presenza del ministro degli Esteri cinese Wang Yi a N’Djamena il giorno dell’attacco ha alimentato ulteriori speculazioni. Pechino, che ha espresso il suo pieno sostegno alla stabilità del Ciad, mantiene forti interessi economici nel paese, ricco di risorse petrolifere. Le autorità stanno indagando per identificare mandanti e complici dell’attacco, mentre la calma è tornata nelle strade della capitale. Tuttavia, l’episodio sottolinea la fragilità di un regime che deve affrontare nemici interni, tensioni regionali e una crescente competizione tra potenze globali per l’influenza in Africa.

Interrogato sull’episodio durante un normale briefing con la stampa a Pechino, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Guo Jiakun ha dichiarato che Wang ha “concluso con successo” la sua visita in Ciad. “Sosteniamo fermamente il Ciad nei suoi sforzi per mantenere il Paese sicuro e stabile”, ha aggiunto Guo.

Mentre il governo di Déby cerca di proiettare un’immagine di controllo, l’attacco evidenzia l’instabilità latente in Ciad. La risposta delle forze di sicurezza potrebbe aver evitato il peggio, ma le sfide restano enormi, e quanto accaduto poche ore fa potrebbe essere un segnale di una crisi più complessa.

L'attacco al palazzo presidenziale in Ciad riporta i riflettori sull'instabilità del Sahel

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