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I negoziatori degli Stati Uniti vorrebbero chiudere un accordo con i loro colleghi cinesi e ottenere così da Pechino la garanzia di più acquisti Made in Usa (per abbassare lo sbilanciamento commerciale) e il miglioramento dell’apertura del proprio mercato alle aziende americane attraverso nuovi regolamenti interni. I due punti sono importanti, perché rappresentano aggrappi concreti con cui arrivare a disinnescare il complicato scontro commerciale tra i due Paesi, parte di un ancora più complesso scontro globale tra superpotenze.

Le informazioni le rivelano fonti lato Washington al Wall Street Journal, giornale non troppo critico con la Casa Bianca, dando un po’ di consistenza a un’uscita via Twitter del Presidente Donald Trump, che sabato aveva parlato di una sua telefonata con l’omologo Xi Jinping e del procedere “very well” dei negoziati. Secondo l’americano, con i colloqui si sta raggiungendo un accordo ”molto completo, che copre tutti i soggetti, aree e punti di controversia. Grandi progressi compiuti!”. E tutto, specifica Trump, “entro il primo marzo”.

La data è un riferimento politico forte, perché a marzo scade l’ultimatum imposto dagli Stati Uniti al processo negoziale avviato a inizio dicembre, dopo la cena tra Trump e Xi a latere del G20 di Buenos Aires. Novanta giorni che Trump ha messo a disposizione dei negoziatori delegati da Washington e Pechino per evitare che i dazi su 200 miliardi di dollari di prodotti cinesi importati negli Stati Uniti aumentino dal 10 al 25 per cento.

Chiudere qualcosa di concreto entro marzo è considerato piuttosto difficile dagli esperti, ma Trump nella sua retorica continua a usare la data per mandare il messaggio che è lui a dettare i tempi del processo.

Però attenzione. “Persone che hanno familiarità con lo stato dei negoziati” hanno rivelato al WSJ anche che il presidente “potrebbe esagerare” nel dire quanto le due parti siano vicine ad un accordo. Il tweet di Trump andrebbe allora visto in senso più tattico: una pressione, forse, oppure un tentativo, di calmare i mercati, dopo, che hanno oscillato nei giorni scorsi, in parte “a causa della preoccupazione che la lotta commerciale tra Stati Uniti e Cina potrebbe andare fuori controllo”. O forse entrambi.

Nel quadro va sottolineato che se non fosse raggiunto nessuno genere di accordo, l’innalzamento delle tariffe commerciali che partirà dal 2 marzo potrebbe creare problematiche con un forte impatto su componenti di elettronica, macchinari e diverse altre industrie statunitensi che si basano sulle importazioni cinesi. Potrebbe anche frenare ulteriormente l’economia cinese, già in fase di rallentamento, con grandi (e pessime) conseguenze sulla crescita globale.

Una squadra di funzionari degli Stati Uniti, tra cui il vice rappresentante commerciale Jeffrey Gerrish e il sottosegretario al tesoro David Malpass (il primo più falco, l’altro più morbido) sarà a Pechino la settimana del 7 gennaio per colloqui di diverso genere e livello. Se con questo round si faranno progressi, i funzionari commerciali cinesi, guidati dal vice premier con deleghe all’Economia, Liu He, andranno a Washington la settimana seguente, o poco dopo, per incontrare il rappresentante degli Stati Uniti, Robert Lighthizer, e il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Steven Mnuchin. Ossia ci sarà un contatto di livello appena sotto a quello presidenziale, dunque altissimo.

È questa la tempistica secondo il giornale sella borsa americana: in mezzo, il primo gennaio, saranno 40 anni dall’istituzione delle relazioni commerciali tra Washington e Pechino (potrebbero esserci sorprese, ndr). Con il tic-tac che corre, in due mesi Trump deve fare i conti anche con la sua situazione: i mercati finanziari americani sono nervosi, e fanno registrare perdite storiche, mentre novembre è stato il primo mese in cui la Cina non ha comprato soia americana dopo anni. I cinesi sono i più grossi acquirenti di soia al mondo, e qualche settimana fa il presidente Trump aveva parlato anche di un accordo per far aumentare l’import dei coltivati americani, ringraziando Xi. Saranno i prossimi dati a pesare quantitativamente queste dichiarazioni, che come detto hanno anche il compito di creare un sistema di pressing continuo su Pechino.

A Washington le trattative vengono condotte su un doppio filone: se da una parte l’ufficio del rappresentante commerciale dà una spinta più dura (“hawkish”, dicono gli americani), dall’altra il dipartimento del Tesoro è più morbido. Per esempio, il segretario Mnuchin ha esercitato pressioni prima di Natale per impedire alle aziende cinesi di essere colpite con sanzioni legate allo spionaggio informatico — uno dei tanti punti di scontro tra Usa e Cina— lo stesso giorno in cui il Dipartimento di Giustizia annunciava l’incriminazione di due cittadini cinesi,  legati a una campagna di cyber-intelligence sponsorizzata dallo Stato per rubare informazioni sensibili dagli Stati Uniti. imprese.

Il Tesoro vuole mantenere la questione dello spionaggio separata dai negoziati commerciali, ma altri lati del governo americano continuano a premere perché il dipartimento di Mnuchin avvii sanzioni, sia per punire Pechino sia per chiarire la linea (dura) con cui gli Stati Uniti affrontano i negoziati.

 

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