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“L’Arabia Saudita ha accettato di stanziare i fondi necessari per aiutare gli Stati Uniti a ricostruire la Siria”, dice il presidente americano Donald Trump in un tweet: “Non è bello quando sono paesi immensamente ricchi ad aiutare i loro vicini, anziché gli Stati Uniti che si trovano a 5mila miglia di distanza?”.

C’è tutto Trump: il presidente trova una giustificazione America First davanti alle polemiche, e agli scompensi internazionali, creati negli ultimi sette giorni dopo l’annuncio del rapido e completo ritiro dalla Siria del contingente americano — quello che combatte lo Stato islamico, che secondo Trump è sconfitto.

Oggi dice che saranno i vicini a completare il lavoro. La Turchia, con cui ha avuto conversazioni di livello presidenziale, finirà la missione anti-Isis (sacrificati i curdi siriani, nemici dei turchi e finora usati come boots in the ground contro il Califfato dagli americani). L’Arabia Saudita metterà i soldi per la ricostruzione, e forse (o si spera, ndr) l’annuncio del Prez si porterà dietro qualcosa di più dei pochi milioni di dollari che finora Riad ha messo a disposizione dei programmi pensati dal dipartimento di Stato per la Siria (il bonifico da 100 milioni della prima tranche è arrivato sui conti di Foggy Bottom il giorno in cui il segretario Mike Pompeo è atterrato a Riad per ricevere risposte sulla vicenda Khashoggi: era la prima decade di ottobre, e l’immagine dà il senso a questi genere di aiuti).

Trump ha scelto il disimpegno dalla Siria, come promesso in campagna elettorale, e sempre su Twitter oggi ha spiegato il perché, usando le parole del più eccentrico dei senatori repubblicani, Rand Paul: “Non dovrebbe essere il lavoro dell’America a sostituire i regimi di tutto il mondo. Questo è ciò che il Presidente Trump ha riconosciuto in Iraq, che è stato il più grande disastro di politica estera degli ultimi decenni, e ha ragione… I generali ancora non hanno capito l’errore”.

I media americani dicono che il presidente sia furioso per via di un’alleanza, che lui sospetta ma non è troppo fantasioso, tra alcuni senatori repubblicani e democratici ed elementi della sua amministrazione come l’ormai ex capo del Pentagono, James Mattis. I cosiddetti normalizzatori, ora praticamente inesistenti, sostituito con uomini più allineati.

Mattis s’è dimesso ufficialmente venerdì, in polemica con le scelte sulla Siria e quelle simili sull’Afghanistan, passaggi che hanno definitivamente fatto franare la fiducia tra i due, da tempo erosa da distanze enormi su certe visioni strategiche — distanze minori, riguardo l’impegno e il ruolo americano nel mondo, Mattis ce le ha con diversi congressisti, invece (e certi passaggi del Sensto sullo Yemen e sull’Arabia Saudita, condivisi anche dal generale ex segretario, tradiscono questo allineamento).

Trump ha imposto a Mattis un’uscita più rapida di quella prevista dal generale — che voleva lasciare il Pentagono a fine febbraio, ma dovrà farlo dal primo gennaio — e anche questo braccio di ferro ha creato ulteriori polemiche. Ecco perché a questo ha avuto la necessità di coinvolgere Riad in uno step per certi versi rassicurante.

Passaggio utile tra l’altro per cercare di ripulire l’immagine sua e dei sauditi, protetti anche contro le analisi della Cia sull’imbarazzante caso Khashoggi, con gli aiuti ai siriani che fanno da maquillage per il regno sul tema dei diritti e sull’impegno umanitario.

Riad ultimamente non sta ricambiando la protezione politica internazionale che a Trump gli offre, ha per esempio fatto passare il taglio di produzione di petrolio decisa dall’Opec che la Casa Bianca detesta, e forse Trump forza il loro coinvolgimento sulla ricostruzione in Siria anche sulla base di questa situazione da ribilanciare.

 

 

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