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Per capire nel suo senso ultimo i drammatici fatti di queste ore in Israele occorre tornare indietro di qualche giorno e fissare l’attenzione su una data precisa: il 26 settembre.

Quel giorno il ministro del Turismo Haim Katz atterra a Riad per partecipare ad un evento delle Nazioni Unite, mostrando al mondo intero con orgoglio la prima (e storica) visita in Arabia Saudita di un membro del governo israeliano.

Attenzione però, quel giorno succede anche altro. Accade cioè che Nayef al Sudairi, inviato speciale saudita, arriva in Cisgiordania, con una coincidenza temporale che è decisamente voluta e calcolata.

“La questione palestinese è un pilastro fondamentale”, dichiara ai giornalisti dopo l’incontro con il ministro degli esteri palestinese Riyad al-Maliki a Ramallah. “L’iniziativa araba, presentata dall’Arabia Saudita nel 2002, è al centro delle discussioni in corso”.

Ma cos’è questo piano ricordato dall’inviato di MbS (Mohammed bin Salman)? Sostanzialmente prevede la normalizzazione delle relazioni con Israele in cambio del suo ritiro dalla Cisgiordania, da Gerusalemme Est, dalla Striscia di Gaza e dalle alture del Golan. Un piano che, va detto con franchezza, non ha mai fatto grandi passi avanti per la freddezza di tutti gli attori di rilievo, compreso Israele.

Tanto è vero che la stessa data originale del piano, che ha questo punto ha già più di vent’anni, ne dichiara la sostanziale impotenza.

Ad ogni modo la visita a Ramallah ha anch’essa qualcosa di storico, almeno in senso relativo, poiché mancava da trent’anni una delegazione saudita da quelle parti.

L’avvicinamento di Israele all’Arabia Saudita è dunque il punto centrale di tensione per tutta l’area. Alcuni leader palestinesi hanno definito questi accordi “un tradimento della loro lotta per ottenere uno Stato”, e lo stesso presidente palestinese Abu Mazen, 87 anni, ha detto di avere forti dubbi sui Paesi arabi che stringono legami con Israele. “Chi pensa che la pace possa affermarsi in Medio Oriente senza che i palestinesi abbiano uno Stato, rimarrà deluso”, ha dichiarato all’assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, non più tardi di dieci giorni fa.
Adesso però siamo già in un nuovo scenario, che è diventato uno scenario di guerra.

Lasciamo perdere le implicazioni interne alla politica israeliana (l’attacco di Hamas finirà per aiutare Netanyahu) e concentriamoci sugli aspetti internazionali.

Qui emerge con evidenza un punto: le forze che desiderano sbaragliare tutti i cercatori di equilibri economico-politici sono in azione e lo fanno con violenza di nuovo conio, ben rappresentata dall’imponente sforzo militare messo in atto da Hamas, che non ha precedenti nell’intera storia di quelle tormentate terre.

Diciamo la verità nella sua brutale essenza: Hamas esiste perché una comunità internazionale dentro e fuori il mondo islamico ne sostiene finanziariamente, militarmente e in tema di intelligence le azioni e, soprattutto, ne preserva in vita gli esponenti di spicco. Una rete che coinvolge certamente l’Iran ma che probabilmente va molto oltre, perché basta guardare l’attività di gruppi vari in Africa per capire quanto attive sono le forze che si oppongono ad ogni processo di pace e ad ogni accordo che cerca di stabilizzare le situazioni, in un continente dove ormai sono al potere quasi esclusivamente figure di provenienza militare (spesso aiutate da reparti di mercenari russi).

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