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A pochi giorni dalla visita del presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Washington le nubi che negli ultimi mesi avevano ricoperto le due sponde dell’Atlantico, divise su dazi, Iran, Nato e molto altro, cominciano a diradarsi. La missione del presidente della Commissione Jean Claude Juncker a Capitol Hill è andata a buon fine. Ad annunciarlo è il presidente Donald Trump, che ha affidato ai social il suo entusiasmo per l’allentamento delle tensioni con l’Ue. Niente guerra commerciale all’orizzonte, o almeno così pare. È il metodo Trump: litigare (basti pensare al batti becco con Juncker post Brexit), minacciare, e poi invitare a pranzo il competitor per portarlo a miti consigli. Così, in questo clima di distensione, Conte può salire sull’aereo alla volta degli States per affrontare la prima visita di Stato oltreoceano del suo governo con un po’ di ottimismo. I dossier sul tavolo sono tanti, forse troppi per un faccia a faccia di poche ore. Il premier italiano ha dalla sua la simpatia del Tycoon, e qualche carta in più rispetto agli alleati europei. Quali? Lo abbiamo chiesto a Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali (Iai).

Conte a Washington da Trump. Quali saranno i punti di convergenza e i dossier più divisivi?

Il vero tema da porsi è quali saranno le convergenze inaspettate. Tutti gli occhi saranno puntati sul discorso Russia-sanzioni. Una certa sintonia fra le due parti c’è: lo abbiamo visto quando al G7 Trump ha detto di immaginare un G8 con la Russia e Conte gli è andato dietro. Mi spiace dirlo, perché è preoccupante, ma la principale convergenza si avrà sui rapporti con la Russia. Fino ad oggi il governo italiano è rimasto sul doppio binario europeo: dialogo e sanzioni.

Le sanzioni europee a Mosca pesano davvero quanto quelle americane?

Pesano molto più quelle europee. Gli scambi commerciali fra Europa e Russia sono decisamente superiori rispetto a quelli fra Mosca e Washington. Sulle sanzioni europee si pone un tema politico. In Europa oggi cominciano a farsi sentire voci contrarie, a partire dal governo italiano. Gli Stati Uniti, da sempre fautori della fermezza con Mosca per il rispetto degli accordi di Minsk, stanno facendo marcia indietro perdendo così quel ruolo di collante dell’unità europea che hanno sempre avuto.

Ecco un punto in comune fra Trump e Conte: entrambi sono alla guida di due governi che parlano con più voci, litigano, si dividono all’interno.

Questo peserà non poco sul risultato del bilaterale. Mi aspetto che emerga una forte intesa tra le due parti, che però sarà inevitabimente minata alla base dalle divergenze interne all’amministrazione Usa e al governo italiano. Non mi sorprenderei nel leggere un comunicato congiunto in cui si dichiara di voler proseguire con il dialogo con la Russia. Salvo poi, di fronte al polverone mediatico che si alzerà, fare due passi indietro affermando il contrario, e promettendo di voler aumentare le sanzioni. Non sarebbe certo la prima volta.

A proposito, cosa pensa di Matteo Salvini che in un’intervista al Washington Post dichiara legittima l’annessione russa della Crimea e poi viene smentito dal ministro degli Esteri Moavero?

Il dato più inquietante di quell’intervista di Salvini non è tanto la posizione su un tema contingente come l’annessione della Crimea. Sconcerta di più vedere un ministro del governo italiano che parla al di fuori di qualsiasi quadro multilaterale europeo, transatlantico, internazionale, senza pensarci due volte. Così passa un messaggio distorto, per cui l’interesse nazionale si può difendere al meglio da soli piuttosto che in un contesto multilaterale.

Torniamo al vertice del 30 luglio. L’amministrazione Usa ha invitato l’Italia a proseguire i lavori per il gasdotto Tap. Come con Angela Merkel e il Nord Stream l’obiettivo è ridurre la dipendenza energetica europea da Mosca?

Credo che le richieste dell’amministrazione Usa su Nord Stream e Tap siano motivate da ragioni commerciali più che politiche. L’incontro fra Juncker e Trump alla Casa Bianca ha segnato un passo avanti per un accordo commerciale nel settore energetico, anche se ho seri dubbi che il gas americano arrivi in Europa. I richiami di Trump a Merkel sul Nord Stream 2 non sono davvero mirati a ridurre la dipendenza energetica europea dalla russia. Mi sembrano più fine a se stessi: qualsiasi cosa faccia la Merkel resterà comunque il diavolo sceso in terra. È dal 1993 che Trump parla così della Germania. È chiaro che c’è una contraddizione. Anche la Merkel sa che il Nord Stream è problematico, ma deve fare i conti con un feroce dibattito interno alla coalizione.

Trump sta portando agli estremi l’escalation con l’Iran, un Paese con cui noi abbiamo diversi investimenti in ballo. Come glielo spiegherà Conte?

Questo sì può essere il pomo della discordia. Non è escluso che Trump voglia andare avanti con le sanzioni secondarie agli Stati europei che fanno affari con Teheran, e fra questi c’è l’Italia. Che in fondo ha sempre tutelato i suoi investimenti in Iran sia con i governi di centrodestra per questioni prettamente commerciali, sia con i governi di centrosinistra per ragioni legate all’accordo sul nucleare con l’Ue.

Altro punto interrogativo: le missioni internazionali.

Non c’è dubbio che il tema sarà posto a Washington. Delle tante missioni internazionali che vedono l’Italia in prima linea quella più a rischio è in Afghanistan. Il ministro Trenta ha dato rassicurazioni agli alleati, ma la partita non è chiusa. D’altronde mettere in discussione la nostra presenza a Kabul può diventare una carta spendibile di fronte all’elettorato, anche perché altri Paesi europei hanno già abbandonato. Più difficile invece che il governo Conte voglia diminuire la nostra presenza nella missione in Libano, che per l’Italia è un fiore all’occhiello.

Poi c’è la Libia, che per l’Italia è una priorità, per gli Stati Uniti un po’ meno. Fra Trump e Putin chi è l’interlocutore più affidabile?

Né l’uno né l’altro. Ogni volta che ho parlato di Libia con gli americani sono giunta a una conclusione: sono loro che chiedono indicazioni a noi italiani e non viceversa. Non era una priorità per Obama, figuriamoci se può esserlo per Trump. Certo, gli Stati Uniti sono a favore di un impegno italiano in terra libica, ma non hanno intenzione di metterci un soldato. Putin nel Nordafrica sembra invece voler seguire una strategia tipica della Russia ma anche dell’Iran: aspettare che si creino dei vuoti, per errori o titubanze dei competitor, per poi riempirli e ampliare la propria sfera d’influenza. Ora che in Libia si è creato un vuoto, sia per l’incapacità dei governi italiani sia per le cantonate che ci hanno rifilato i cugini francesi, la Russia è pronta a riempirlo. Ha dalla sua parte il presidente egiziano Al-Sisi e il generale Khalifa Haftar, due jolly fondamentali per vincere la partita libica.

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