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Il 15 luglio il Plenum del Comitato permanente del Partito Comunista Cinese si riunirà per tre giorni di discussioni che dovrebbero ruotare attorno alla crescita, allo sviluppo e alle riforme. La sessione plenaria è uno dei massimi momenti di confronto a Pechino, in cui solitamente il sistema gerarchico del Partito/Stato decide direttive e disegna visioni.

In particolare, questo che ci sarà tra due settimane sarà il Terzo Plenum, ossia la terza volta dall’inizio dei suoi cinque anni di mandato che il Comitato si riunisce in tale formato. Nello specifico, l’attuale Comitato Centrale — il più importante organo del Partito per numero e rappresentatività — è stato nominato nell’ottobre del 2022 e si sarebbe dovuto riunione, da prassi, nell’ultimo trimestre del 2023 (ossia nel trimestre finale dell’anno successivo al Congresso che lo ha nominato).

Ma la riunione è stata rimandata — e i rumors dicono che sia dovuto alle problematiche economiche e a una non definita linea per affrontarle. Il quadro protocollare che caratterizza l’assise (a cui partecipano tutti i papaveri del Partito), non permette informazioni chiare. Sulla base del contesto simbolico e solenne, infatti, il Partito gestisce la comunicazione delle decisioni, solitamente espresse in forma enigmatica, con giochi retorici cifrati che lasciano spazio a varie interpretazioni.

Tuttavia, oltre il contesto e la consuetudine allegorica, le scelte che verranno prese a Pechino saranno significative per due ragioni già accennate. Sia perché il Terzo Plenum è solitamente quello che dà l’input ai piani di sviluppo economico — che in questo caso riguarderanno l’arco temporale che va fino al 2027. Sia perché il clima generale cinese non è formidabile — con il rallentamento dell’economia, le crisi interne come quella immobiliare, le mosse per chiudere il mondo dei dati con la doppia mandata della sicurezza nazionale e le contromosse davanti ai comportamenti scorretti cinesi che potrebbero presto arrivare anche dall’Ue (dopo che dagli Usa), e dunque l’effetto di tutto ciò.

Tutto va letto anche con un’ottica interna. Non è affatto detto infatti che l’attuale principale concentrazione del Leader Xi Jinping sia la politica di sviluppo internazionale, piuttosto potrebbe essere il mantenimento del consenso, dell’equilibrio con l’élite e con le collettività. Ci sono certamente scelte di politica economica, ma probabilmente a uso interno. La Cina di Xi sta vivendo un momento mai vissuto: con gli standard generali che sono stati ormai alzati, occorre fare i conti con la contrazione, il rallentamento, il plateau della crescita. Concetti comuni nell’Occidente rivale, ma mai vissuti dalla Repubblica popolare.

La situazione l’ha fotografata lo scorso mese Zhang Bin, vicedirettore generale dell’Istituto di economia e politica mondiale dell’Accademia cinese delle scienze sociali, durante un simposio in cui ha criticato le scelte macroeconomiche di Xi. Zhang ha tenuto le critiche impacchettate nella formalità di un linguaggio accademico e controllato — ossia critiche possibili quel tanto che basta per dimostrare la presenza di dibattito interno, ma niente oltre per evitare la censura — e sostenuto che “il processo di riforma non dovrebbe prevedere cambiamenti globali in tutti i settori da un giorno all’altro. Un approccio pratico consiste nell’identificare le principali contraddizioni, ottenere progressi in aree specifiche e utilizzare tali progressi per promuovere riforme più ampie. I precedenti modelli cinesi di riforma graduale e di zona pilota seguono questa saggezza e hanno ottenuto un enorme successo”.

Nella simbologia che permea il dibattito pubblico cinese di alto livello, Zhang dice che serve “attraversare il fiume sentendo le pietre”e quando parla di riforme potrebbe riferirsi alle aperture di Deng Xiaping — l’autore della politica di “Riforma e apertura”, lanciata il 18 dicembre 1978, proprio in occasione della terza sessione plenaria dell’11° Comitato centrale. Quella fu una scossa all’economia affrontando questioni strutturali, che aprì la strada alle attività in Cina di imprese straniere. Mentre adesso le nuove leggi sullo spionaggio limano le capacità operative delle aziende straniere, già sei anni fa, a 40 anni dal lancio delle politiche di Deng, in un lungo e protocollare discorso commemorativo, Xi disse che non avrebbe lasciato alle potenze straniere imporre cambiamenti (in Cina) non conformi al “socialismo con caratteristiche cinesi”.

Quest’anno, mentre Xi dovrà pensare alla situazione interna, dal Terzo Plenum potrebbe dover passare anche il ristabilire — o meno — la Cina come “investibile” agli occhi degli attori economico-finanziari internazionali. Mentre il leader stenta a produrre una riforma valida come quella di Deng, anche perché ora la necessità per Xi è evitare che le aperture economiche indeboliscano la competitività cinese e soprattutto si traducano in successive richieste socio-politiche. Due enormi questioni di sicurezza nazionale.

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