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Il giorno dopo il niet del Cnel al salario minimo, misura chiesta dalle opposizioni al governo Meloni (M5S, Pd e Sinistra italiana e Azione su tutti), è tempo di chiedersi se i famosi nove euro all’ora garantiti siano la medicina giusta per impedire all’inflazione di demolire il potere di acquisto dei lavoratori e fortificare le difese immunitarie del mercato del lavoro.

Antefatto. Da Villa Lubin è arrivato un chiaro stop al salario minimo, spiegato nelle quasi 30 pagine del documento approvato dall’assemblea dello stesso organismo presieduto da Renato Brunetta, succeduto nell’aprile di quest’anno a Tiziano Treu. Una sponda al governo di Giorgia Meloni, che ha sempre prediletto la strada di una contrattazione più robusta. Premesso che la povertà lavorativa in Italia esiste, essa è però dovuta soprattutto ai tempi di lavoro e alla composizione familiare. E quindi “è un fenomeno che va oltre la questione salario”. Alternativa?

Semplice, rafforzare con un piano di azione nazionale “un ordinato e armonico sviluppo del sistema della contrattazione collettiva”. E la base di partenza è già buona di per sé, visto e considerato che, come si legge nelle conclusioni (il documento ha avuto solo il voto contrario della Cgil e l’astensione della Uil) il tasso di copertura della contrattazione collettiva in Italia “si avvicina al 100%, di gran lunga superiore all’80%”, parametro fissato dalla direttiva Ue. Ed è qui che Michel Martone, ex viceministro del Lavoro nel governo Monti, saggista, giuslavorista e docente, fa una netta distinzione: un conto è dire che una misura non serve, un conto che non basta. E nel caso in specie vale la seconda.

“Il Cnel ha una posizione in linea di massima condivisibile, il salario minimo legale da solo non basta. La difesa dei lavoratori, semmai, passa per una più efficace contrattazione collettiva”, premette Martone. “Pensare a una qualche forma di retribuzione minima legale può essere utile in certe zone limitrofe d’Italia, a patto però che non vada a discapito della menzionata contrattazione collettiva. Lo ripeto, il salario minimo da solo non basta”. Quanto all’indicazione dello stesso Cnel per un grande piano nazionale per la contrattazione, Martone condivide il principio.

“Se ne parla da tanti anni, per fare questo bisogna attuare l’articolo 39 della Costituzione e risolvere la questione della rappresentanza sindacale. Se si arrivasse a una estensione della contrattazione, non ci sarebbe davvero più bisogno di un salario minimo legale, perché avremmo tanti contratti, tanti quali le categorie, con delle retribuzioni base previste dagli accordi. Ogni lavoratore, in buona sostanza, avrebbe un salario minimo, ma per contratto”, precisa Martone.

La discussione si sposta poi sulla manovra, più nello specifico sulla volontà del governo di concentrare gli sforzi sul taglio strutturale del cuneo fiscale. “Mi pare un proposito corretto, ridurre il carico contributivo e fiscale che grava sui lavoratori è fondamentale. Tuttavia, non lo possiamo negare, c’è un tema di risorse. Ed è lì che si gioca la partita”. E il reddito di cittadinanza che con la fine del 2023 andrà definitivamente in pensione? Martone ha pochi dubbi. “Se pensiamo alla pandemia, allora quella misura ha avuto il suo senso e la sua utilità per il suo carattere universale. Ma alla lunga si è rivelata una misura costosa che non sempre ha impattato sul mercato del lavoro, come avrebbe dovuto. Non è un caso che negli ultimi mesi di vita abbiamo assistito a una diminuzione delle domande del reddito”.

 

Il salario minimo non basta. Martone spiega perché

Conversazione con il giuslavorista, saggista ed ex viceministro del Lavoro, Michel Martone. Un errore affidarsi solo a una retribuzione minima prevista per legge, estendere e rafforzare i contratti è la vera difesa dei lavoratori. Sul cuneo fiscale il governo ha ragione, risorse permettendo

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