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In questi mesi abbiamo visto l’Occidente – opinione pubblica, media, piazze, istituzioni – mobilitarsi con forza sul conflitto in Medio Oriente, denunciando quello che è stato definito il “genocidio palestinese”. Eppure, mentre fiumi di persone sfilano nelle capitali europee, mentre si moltiplicano appelli e risoluzioni, altri massacri, altre guerre, altre vittime vengono completamente ignorate. Non si tratta di fare classifiche del dolore né paragoni tra un conflitto e l’altro. Ogni vittima è sacra. Ma è evidente che oggi ci sono conflitti che fanno rumore e altri che non fanno notizia. Guerre visibili e guerre dimenticate.

Questa è una guerra a pezzi, come detto da Papa Francesco. Un conflitto globale frammentato, diffuso, spesso invisibile, che colpisce senza tregua i più deboli, gli ultimi, chi non ha voce. Oggi nel mondo sono attivi oltre 120 conflitti armati, la maggior parte dei quali si consumano nel silenzio quasi totale dell’opinione pubblica. Uno di questi è la guerra in corso in Nigeria. Un genocidio che da anni insanguina le comunità cristiane del Paese. Un piano che mira a cancellare un’identità e a instaurare un regime islamico violento nel cuore dell’Africa.

La notte del 13 giugno 2025, nel villaggio di Yelwata, oltre 200 civili cristiani – donne, bambini, famiglie intere – sono stati arsi vivi. Le case cosparse di benzina, le persone bruciate. Alcuni corpi giacevano ancora il giorno dopo nei mercati, nei campi. Un attacco disumano, feroce, che non può più essere ignorato. Eppure, ancora una volta, il mondo tace. Chi conosce davvero la Nigeria, chi ci vive, chi da anni lavora a stretto contatto con le comunità rurali, con i bambini, con le famiglie colpite, sa che quanto sta accadendo non è frutto di semplici tensioni territoriali o di emergenze ambientali. È qualcosa di più profondo, più organizzato. È una strategia precisa di islamizzazione violenta. Una guerra identitaria che ha preso di mira, in modo sistematico, i cristiani.

Lo ha detto con fermezza Monsignor Wilfred Anagbe, vescovo di Makurdi: “È una jihad, una pulizia etnica, un genocidio.” Le sue parole arrivano dopo anni di silenzi e mezze verità. Parlano di neonati massacrati nei letti, di suore fuggite nella boscaglia, di chiese distrutte, di comunità svuotate dalla paura. Il fenomeno ha radici profonde: Boko Haram, l’insurrezione islamista, la complicità politica di alcune élite, e soprattutto l’ascesa della violenza armata dei pastori Fulani. Nel 2022, in un mio articolo, documentavo l’attacco alla chiesa di Owo, con oltre 50 cristiani uccisi durante la Messa. Non era un caso isolato. Era uno dei tanti segnali che nel tempo si sono succeduti. Oggi quell’ennesimo segnale è diventato un grido che si estende dal nord-est al centro del Paese, e minaccia anche regioni come Enugu, finora relativamente risparmiate.

Sull’orlo del baratro

Con oltre 200 milioni di abitanti, la Nigeria è una nazione chiave per la stabilità del continente africano. Ma è anche una polveriera pronta a esplodere. La divisione religiosa è netta: il nord è a maggioranza musulmana, spesso dominato dalla sharia; il sud cristiano resiste, ma viene aggredito. La Middle Belt – dove queste due anime si incontrano – è il campo di battaglia. Lì si gioca il destino del Paese.

I pastori Fulani, radicalizzati e armati, non sono più semplici nomadi. Sono milizie. Si muovono con una visione ideologica precisa. Non cercano solo pascoli, cercano dominio. Occupano terre, bruciano villaggi, impongono l’Islam. Parlare di “conflitto per le risorse” significa chiudere gli occhi davanti all’evidenza. Significa negare le testimonianze di chi sopravvive, ma porta sul corpo e nell’anima le ferite di una persecuzione religiosa.

Quello che avviene in Nigeria non è un fenomeno isolato. Dinamiche simili si stanno verificando in altri contesti africani e asiatici. Intere regioni vengono destabilizzate da movimenti islamisti che non agiscono per caso, ma secondo una logica precisa: infiltrare, polarizzare, imporre.

Lo schema si ripete: confessionalizzare i conflitti locali, armare milizie etniche, sfruttare la debolezza statale per guadagnare terreno. È accaduto in Mali, nel Burkina Faso, nella Repubblica Centrafricana. Sta accadendo in Pakistan, in alcune aree dell’India e dell’Asia centrale. È la globalizzazione del fondamentalismo, che si muove sfruttando i vuoti di potere e le ambiguità delle diplomazie occidentali. E mentre accade, l’Occidente si gira dall’altra parte. Intrappolato nel dibattito interno, incapace di guardare oltre il proprio orizzonte culturale, preferisce non vedere quello che oramai è anche alle sue porte.

Il dovere di non tacere

Da tredici anni opero in Nigeria, in particolare nello Stato di Enugu, dove abbiamo avviato scuole, sostenuto orfanotrofi, promosso formazione. Ho visto la speranza rinascere negli occhi dei bambini. Ma ho anche visto villaggi scomparire, famiglie distrutte, comunità ridotte al silenzio. La nostra attività – come tante altre che operano senza clamore – si fonda su un principio semplice: dare voce a chi non ha voce. E oggi quella voce chiede solo di non essere ignorata.

Non possiamo più permettere che la geopolitica selezioni le vittime. Non possiamo più accettare che certe tragedie abbiano spazio e indignazione, mentre altre si consumano nell’oscurità. Non possiamo, soprattutto, restare fermi mentre una parte del mondo viene lentamente cancellata, nel corpo e nello spirito. Non è questione di numeri, ma di coscienza.

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