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Rebus sic stantitbus la pace tra Ucraina e Russia è impossibile?  L’aveva detto Trump. Nessun stupore. Il Presidente americano era consapevole della natura contorta della missione che si era prefissato. Alla volontà dei contendenti di sedersi attorno a un tavolo è prevalso un continuo rilancio delle tensioni. Una somma di condizioni, insulti e intralci a qualsiasi spiraglio di dialogo.  La liturgia seguita fino ad ora è zoppa.  C’è il mediatore americano, in seguito briga il segretario di Stato e quindi chiude il cerchio Trump parlandoci sopra, distribuendo agli astanti vaghe illusioni di genere vario. E quindi interviene il portavoce russo, a seguire il Ministro degli Esteri Lavrov e un supplemento di deliranti dichiarazioni di qualcuno del giro del Presidente, e per finire Putin che mira sostanzialmente a chiuderla lì. Mentre Zelensky fa pubbliche relazioni ad alta voce insinuando pericoli imminenti, disastri possibili, invasioni probabili del cattivone leader del Cremlino, un farsi sentire obbligato per ripetere che senza di lui non si chiude nulla.

Che i due (Putin e Zelensky) non provino simpatia l’uno per l’altro non è una sorpresa. Anche se i rapporti erano di ben altro tenore prima dell’inizio del conflitto. Qui non si riesce farli sedere attorno a un tavolo perché oggi è un patchwork di ardua ricomposizione. Sono schegge impazzite che non arretrano di un centimetro, sicuri tutti di averla vinta. E con l’ossessione comunque di dare delle risposte ai rispettivi popoli, a quelle centinaia di migliaia di famiglie che hanno sacrificato i loro giovani in nome di un obiettivo certo, la vittoria finale.

Trump fa il mediatore di pace, parla con la Russia ma pure con Zelensky, e lascia fuori l’Europa. A quel punto l’Europa è una sponda, com’è sempre stata, per il Presidente ucraino. L’obiettivo non è aiutare The Donald ma osteggiare la trattativa parlando d’integrità territoriale, che vuol dire “andiamo avanti con la guerra”.  Si leggano le dichiarazioni della von der Leyen o della commissaria estone Kaja Kallas. Avanti fino alla vittoria finale. Di corredo quel pressante e vuoto slogan della pace giusta (la pace giusta qualsiasi negoziatore o mediatore che deve impostare una trattativa sa che non esiste) ricordato di frequenza in ogni occasione pubblica.  E poi il piano di riarmo europeo, in sostanza una scatola vuota, ancora in alto mare innestato per la paura dal pericolo espansionistico russo. A corredo il gruppo dei volenterosi incapace di fare proposte che intavolino una trattativa di pace (è l’accusa che ha fatto l’economista Jeffrey Sachs da Corrado Formigli su La7, un personaggio che conosce a pieno lo stato delle trattative Usa-Russia). Cessare il fuoco per 30 giorni non vuol dire niente. È poca roba che svela anche l’impotenza, la difficoltà dell’Europa di essere un interlocutore unitario per la soluzione del problema. Il grande errore del Vecchio Continente, ha ricordato di recente l’inviato di guerra Toni Capuozzo in un’intervista alla Verità, è quello di aver trasformato una crisi locale in una crisi mondiale e questo fa sì che ogni passo sia condizionato da questo. Il problema maggiore è che l’Europa ora non sa come saltare fuori.

Di fronte c’è Putin che sente la vittoria finale in pugno e pensa si possa chiudere la vicenda in breve tempo dopo una condotta militare che certo non ha brillato di raffinata strategia. Agli effetti pratici un prolungamento della guerra copre gli errori grossolani e financo permette alla Russia di ridisegnare il suo ruolo, di trovare nuovi alleati, di parare i colpi dell’economia, di far leva su un rinnovato patriottismo-nazionalismo che ha sempre giovato al rafforzamento della leadership del Cremlino. Trump è preferito a Biden, meglio tenere una porta di dialogo aperto che niente ma non è che per Putin sia così strategico il rapporto con la Casa Bianca, sa da tempo che Washington non è più il centro del mondo e che ora  geopolitica e geoeconomia si sono spostate in Asia Orientale.

E Trump? Pure lui non lacrimerà. Il lavoro sporco l’ha fatto Biden. L’Ucraina non si butta via. Oltre l’accordo delle Terre rare (tutto da tastare e verificare, per ora abbastanza vuoto) comunque gli americani non abbandoneranno così facilmente quell’avamposto e se non ci staranno loro del gran daffare degli europei per  il modo confusionario e approssimativo non c’è da fidarsi. È vero che un accordo con Putin vuol dire per Trump (a parte le ipotesi di spostamento d’asse verso la Cina) avere mano libera in futuro quando dovrà prendersi anche con la forza territori che ha preso di mira come la Groenlandia o il canale di Panama. Un sentiment valido anche per Putin, ma pure per la Cina (con gli occhi su Taiwan), agire indisturbati nelle loro aree d’influenza.

Quindi la pace non s’ha da fare, non si farà?  Siamo in attesa del colpo di scena. Ci ha abituato a questo The Donald. È improbabile che dopo il suono potente della propaganda durante la campagna elettorale e una volta insediato alla Casa Bianca, chiuda bottega così in fretta (attenzione che Trump anche per l’accordo di pace usa la stessa strategia dei dazi, spara alto per spaventare nella speranza che gli interlocutori in un secondo momento scendano a rapidi compromessi). Dobbiamo ritornare alla storica stretta di mano tra il dittatore nordcoreano Kim Jong – Un e Trump del 12 giugno del 2018. Il comandante in capo degli Stati Uniti non rinuncerà di passare alla storia. L’occasione è ghiotta. Effettivamente a questo punto ha ragione il capo della Casa Bianca, solo lui incontrando Putin può sbloccare un possibile accordo di pace. E  quindi si proceda. Senza preavvisi o preparazioni diplomatiche accurate prenda l’aereo e corra al Cremlino. Ha parlato con Hamas, con la Siria, con l’Iran, quietando conflitti e guerriglie se ce la farà con Putin un Nobel per la pace al tycoon è assicurato. E molti in Occidente con la puzza sotto il naso, pronti a dispensare lezioni di giusta democrazia e vera libertà dovranno ritrarsi da critiche a estuario. Forse questo Presidente americano un po’ sui generis l’avevamo sottovalutato, con la sua dottrina commerciale di risolvere i mali del mondo ha capito tutto, è privo di retorica compassionevole e pedagogica,  dice e fa alla luce del sole. È realista. Anche quando compie tanti errori. Come deve essere un leader che guarda alla complessità del mondo.

 

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