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Sul terreno dell’inadeguatezza del nostro quadro normativo per utilizzare al meglio le nuove iniziative europee e internazionali che possono contribuire a rafforzare le capacità di difesa e sicurezza del nostro Paese, sia sul piano militare che su quello tecnologico e industriale, vi sono, fra le altre, alcune “perle” (ovviamente di diversa importanza, ma che tutte insieme hanno un impatto devastante) su cui Governo e Parlamento dovrebbero riflettere e intervenire.

Una riguarda la partecipazione italiana alle attività finanziate dall’European defense fund (Edf). Questo fondo europeo sta finanziando, a partire dal 2021 (e lo farà fino al 2027), progetti di ricerca e sviluppo comuni (con almeno tre Stati) nel campo della difesa. Tali progetti possono arrivare fino a un dimostratore tecnologico testabile in ambiente operativo e hanno, come ulteriore obiettivo, quello di favorire le sinergie fra attività civili, spaziali e militari e la partecipazione di start-up, pmi, centri e istituti di ricerca (università, enti pubblici e privati). Tutto questo a conferma del fatto che l’innovazione tecnologica pervade ormai tutti i settori e tutte le attività e che, proprio per questo, non ha più “sesso”: non è, quindi, né civile né militare. E, peraltro, in molte aree è spinta ormai più dal mercato civile che da quello militare (a parte alcuni impieghi molto specialistici). Di qui il forte interesse delle Forze armate per poter utilizzare tecnologie e componenti, nati in ambito civile, all’interno degli equipaggiamenti militari, conseguendo anche una significativa riduzione dei costi.

Il mondo industriale e della ricerca italiano ha guardato con crescente interesse a questa iniziativa, anche grazie al sostegno della Difesa e in particolare del Segretariato generale della difesa/Direzione nazionale degli armamenti che ne è il responsabile nazionale. A questo organismo fa, infatti, capo la politica industriale e della ricerca militare. Quest’anno, in particolare, si è superata la quota del contributo finanziario dell’Italia all’Ue, circa il 13%, arrivando al 17,8% del budget totale Edf 2023: un ottimo risultato tenendo conto sia dell’incremento rispetto agli anni precedenti (13% nel 2021 e 13,7% nel 2022), sia dell’aumentata e più agguerrita competizione a livello europeo. Molto positivo anche il risultato complessivo: i progetti in cui sono coinvolti soggetti italiani sono 36 (metà di sviluppo e metà di ricerca) su un totale di 54 e questo conferma il buon livello qualitativo delle proposte con un ampio coinvolgimento di imprese (grandi e piccole), centri di ricerca e università. Anche sul fronte dell’interesse dimostrato, i risultati sono stati incoraggianti: i soggetti italiani che hanno partecipato a questa tornata sono stati 150, facendo registrare 294 partecipazioni in totale, con un incremento di circa il 30% rispetto all’anno precedente.

Si è, inoltre, registrata un’accelerazione della partecipazione di entità specializzate nel settore della ricerca, tradizionalmente più impegnate nel campo civile, nonostante si continuino a registrare nel nostro Paese ritardi e incertezze dovute alla persistenza di forme di preclusione ideologica in ambito accademico e alla mancanza di un sistematico coordinamento della politica della ricerca e dell’innovazione che coinvolga settore civile e militare, con particolare attenzione per aerospazio e sicurezza (cyber e fisica). Comunque, nei progetti Edf 2023 dedicati alla ricerca vi sono Politecnico di Milano e di Torino, università di Genova, Bologna, Trento, CNR e, in quelli di sviluppo, Politecnico di Milano, università di Napoli, Consorzio nazionale interuniversitario per le telecomunicazioni, Cira, Enea, Iai.

Peccato che le grandi imprese della difesa coinvolte, un po’ per prassi consolidata, un po’ per atteggiamento cautelativo nei confronti dei propri vertici, abbiano ritenuto che anche queste loro attività rientrino nel campo di applicazione della legge 185/1990 avviando le previste procedure per il trasferimento intra-comunitario delle informazioni tecnologiche sviluppate nell’ambito dei progetti Edf. Chiunque sia dotato di buon senso capisce che un progetto di ricerca o sviluppo finanziato dall’Ue (che, a sua volta, è finanziata dagli Stati membri), sulla base di un programma approvato dagli Stati membri e, spesso, cofinanziato anche direttamente dagli Stati partecipanti, dopo essere stato prima approvato e poi controllato dai relativi ministeri della Difesa, non può essere assoggettato alle norme che controllano le esportazioni degli equipaggiamenti militari, o meglio, dovrebbe essere trattato in modo completamente diverso.

Ma “dura lex sed lex” e, quindi, nel frattempo tutti sembrano fingere di non sapere, con un’aggravante: anche ipotizzando che tutti i soggetti partecipanti decidessero di mettersi in regola, la grande maggioranza non lo potrebbe fare perché la legge 185/1990 consente di autorizzare il trasferimento all’estero di prodotti militari (comprese le tecnologie) solo alle “imprese” iscritte al Registro nazionale delle imprese esportatrici. Ovviamente l’eventuale applicazione di questa “limitazione” avrebbe come risultato che le imprese della difesa italiane cercherebbero solo università, centri di ricerca, pmi e start-up di altri Paesi europei non soggetti alla nostra normativa e tutti i soggetti italiani “civili” sarebbero evitati come appestati dalle imprese della difesa estera, con buona pace della volontà di favorire i trasferimenti tecnologici fra mondo civile, spaziale e della difesa.

Eppure basterebbe aggiungere, come è stato già inutilmente proposto, un nuovo piccolo comma alle clausole di esclusione dal campo di applicazione della legge 185/1990 per attribuire i compiti di controllo di queste attività di ricerca e sviluppo direttamente al ministero della Difesa, che già lo fa sul piano finanziario e operativo, ma che oggi non lo può fare sul piano giuridico. L’approvazione del progetto da parte del ministero potrebbe così autorizzare automaticamente tutte le relative attività.

(La prima parte di questa riflessione si può leggere a questo link)

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