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Per quanti sforzi faccia, Luigi Di Maio non riesce a declinare altro che un enorme programma di spesa pubblica. Le cui coperture si riassumono solo in una proposta: aumentare il deficit, dopo aver abolito il Fiscal compact. Le altre ipotesi – “l’unione fiscale per smantellare il sistema di elusione e di evasione nell’ambito dell’Ue” – almeno in un arco di tempo ragionevole, sono solo sogni.

Per un curioso gioco del destino, mentre il Capo politico dei 5 stelle, vergava la sua lettera – manifesto al Corriere della sera, l’ipotesi di una web tax, per costringere i giganti del settore a pagare il giusto agli Stati ospitanti, cadeva sotto i colpi di Dublino e del Lussemburgo. Speriamo solo che non sia uno stop definitivo, ma l’episodio dimostra quanto lunga e faticosa possa essere la trattativa verso una maggiore uniformità fiscale. Un tempo quasi infinito, che mal si concilia con le ben più drammatiche condizioni italiane. Se è vero che l’avvio di politiche protezionistiche, come temuto dal Def, possono dimezzare, in prospettiva, il già debole sviluppo economico dell’Italia.

Ed allora vediamo in che modo le singole proposte possano contribuire o meno al rilancio produttivo del Paese. Per quanto riguarda il mercato del lavoro si punta ad una maggiore rigidità: salario di cittadinanza, salario minimo orario, reintroduzione dell’articolo 18. “Misura ponte”, sostiene Di Maio, “in attesa di una piena realizzazione del salario di cittadinanza e della riforma dei centri per l’impiego”. Tempi biblici, mentre il disancoraggio dai sottostanti livelli di produttività ha effetto immediato.

Nel frattempo non si possono lasciare indietro i pensionati e quindi “pensioni di cittadinanza”. Quanto costino l’insieme di queste misure non è dato sapere. Val la pena ricordare che in Italia gli occupati sono 23 milioni di persone, su un totale di 60,6 milioni di residenti. Meno del 38 per cento. Se non aumenta il tasso di crescita complessivo, ogni occupato dovrà farsi carico di tre persone: se stesso e due altri componenti. Carico che, stante il forte invecchiamento prospettico della popolazione, è destinato ad aumentare.

Nel frattempo le tasse, sempre secondo Di Maio, devono calare. Riduzione del numero delle aliquote, dimezzamento dell’Irap. Anche in questo caso, data la genericità delle proposte, è impossibile fare qualsiasi valutazione. Il solo dimezzamento dell’Irap dovrebbe comunque costare 12 o 13 miliardi. E le risorse per il Fondo sanitario nazionale (“un serio incremento” sempre secondo Di Maio) aumentare. Difficile quadratura del cerchio.

Ancora per quanto riguarda il punto dolente della lettera: lo sviluppo. Una delle proposte è quella di far nascere una “banca pubblica di investimento per finanziare a tassi agevolati le piccole e medie imprese”. E le regole dell’Unione bancaria europea?: viene subito da obiettare. Non si sta forse teorizzando un gigantesco sistema per alimentare aiuti di Stato? Che ne penserà la Commissione europea e la Bce? Domande, al momento, senza risposte.

C’è poi il capitolo del rilancio delle infrastrutture. Per la “realizzazione delle grandi opere” (e non solo) non è prevista alcuna modifica del codice degli appalti. Sono 40 i miliardi finora stanziati, ma che non hanno prodotto nemmeno la posa di un singolo mattone. Al contrario la proposta è quella di indire preventive “consultazioni” popolari. Evidentemente sotto forma di referendum. “Strumenti” – assicura Di Maio – in uso in tante democrazie moderne”. Il che è vero: ma in quei casi, basti pensare alle strade di Roma, non esiste un gap pari a circa il 50 per cento. La distanza che divide l’Italia dal resto dell’Europa.

Tralasciando gli aspetti secondari, dal punto di vista economico, ma non da quello politico, come la legge sul conflitto di interesse, il maggior utilizzo di agenti sotto copertura per i reati di corruzione, le auto elettriche al posto di quelle blu, resta il problema dei problemi. Dove si trovano i soldi. La risposta è quella convenzionale: riduzione degli sprechi. Ma anche poco credibile. La spesa corrente italiana, al netto di quella per interessi, é esattamente pari alla media di quella degli altri Paesi dell’Eurozona. Si può naturalmente intervenire per razionalizzarla, ma da qui a trasformarla in una sorta di cornucopia ce ne corre.

Ed ecco allora il vero proposito: il superamento del Fiscal compact. Ossia il finanziamento in deficit della maggiore spesa. Ma anche in questo caso i margini sono limitati. Il possibile aumento, fino al tetto del 3 per cento per l’anno in corso, è dell’1,4 per cento del Pil. Ma almeno l’1 per cento se lo mangiano le misure necessarie per evitare l’aumento dell’Iva e le altre necessità della legislazione vigente. Resta quindi ben poco, senza pensare alle inevitabili reazioni di Bruxelles ed al possibile avvio di una “procedura d’infrazione”.

Si può sostenere il confronto con Bruxelles? Certamente, ma una sola condizione. Che le eventuali maggiori risorse, derivanti da uno sforamento, siano destinate esclusivamente ad una maggiore crescita del Pil. Secondo un programma continuamente verificabile in sede comunitaria. Non sarà comunque un’impresa facile. Ci vorrà grande capacità di persuasione ed una notevole dose di diplomazia. Ma se tutto, invece, è finalizzato ad accrescere la spesa corrente, mentre i problemi dello sviluppo sono accantonati, la battaglia è persa in partenza.

Per la crescita, investimenti o spesa corrente. Il dilemma di M5S (irrisolto)

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