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La cosiddetta gig economy – cioè l’economia dei “lavoretti” – è entrata ormai prepotentemente nel dibattito pubblico italiano. In particolare, di recente hanno fatto molto discutere le due sentenze (Milano e Torino) sui fattorini del food delivery: “i rider non possono essere considerati lavoratori dipendenti, perché il loro ingaggio lavorativo prevede piena autonomia organizzativa”. La decisione non stupisce: il lavoro subordinato, lo dice la parola stessa, è tale in forza del vincolo gerarchico che si viene a creare, e implica una serie di obblighi tra cui quelli relativi agli orari di lavoro. Al contrario, i rider sono liberi di stabilire se e quando rendersi disponibili.

Le app come Deliveroo, Foodora, Glovo e UberEats – oltre a quelle minori – non controllano gerarchicamente i fattorini. Si limitano a fornire l’infrastruttura attraverso cui tre versanti del mercato – i ristoranti, i rider e i clienti – vengono messi in contatto e coordinati. Interpretare la profonda innovazione portata dalle piattaforme come se fosse assimilabile al lavoro in fabbrica significa non coglierne né la natura, né la disruption, né i potenziali benefici sia in termini di creazione occupazionale sia di promozione della concorrenza.

La natura: gli economisti sanno che l’impresa, in quanto struttura gerarchicamente organizzata, esiste a causa dei costi di transazione. L’impresa non è altro – nella fortunata espressione del premio Nobel Ronald Coase – che un “fascio di contratti”. Tutti i processi che si svolgono all’interno di essa potrebbero tranquillamente effettuarsi all’esterno, acquistando sul mercato beni e servizi. Ciò non accade perché sarebbe tremendamente inefficiente: infatti le transazioni hanno un costo legato alle condizioni pratiche in cui possono avvenire (raccogliere l’informazione, trovare la controparte, concludere i contratti e garantirne il rispetto, eccetera). Questo spiega, storicamente, perché in alcuni settori le imprese sono molto grandi mentre in altri è più efficiente una dimensione inferiore; perché in taluni ambiti l’integrazione orizzontale o verticale crea efficienza e in altri no.

L’evoluzione tecnologica (e la buona regolazione) cambia continuamente le carte in tavola: spesso, abbassa i costi di transazione, rendendo possibili negoziazioni che prima non lo erano o rendendo inefficienti soluzioni organizzative che in precedenza apparivano perfettamente sensate.
Le piattaforme intervengono esattamente in questo processo. Prima di internet, della connettività diffusa e degli smartphone, era pressoché impossibile (nel senso che sarebbe stato troppo costoso) trovare qui-e-ora un fattorino disposto a recarsi presso il nostro ristorante giapponese preferito e prelevare per noi un buon sushi. Tutto quello che potevamo fare era rivolgerci a quegli esercizi che offrivano servizi di consegna a domicilio (sovente in nero). La digitalizzazione ha rovesciato questo paradigma: grazie all’online, il match tra il sushi, il fattorino e casa nostra è diventato semplice e poco costoso. Da qui il boom del delivery. Che però si comprende solo alla luce di quanto detto: la piattaforma esiste non in quanto fornitore di servizi di consegna, ma in quanto intermediario tra le parti coinvolte.

Questa novità non rappresenta un avanzamento modesto in un ambito marginale (anche perché non è limitata al caso del food delivery ma, con caratteristiche diverse, si ritrova in un’infinità di contesti, dagli autobus interregionali di Flixbus alle baby-sitter). Il fenomeno economico sottostante va molto al di là della possibilità di gustare un buon piatto mentre si guardano i Muppets: sta piuttosto nella disgregazione verticale (o, in altri casi, orizzontale) di processi che prima erano invece inevitabilmente integrati. E, dunque, anche nel cambiamento nella natura delle collaborazioni.

È questo che spiega il fondamento economico dell’autonomia del rider: se la app crea un mercato a più versanti, essa si regge sull’esistenza di persone disposte a diventare, per così dire, imprenditori di se stessi. Tale caratteristica, a vedere le indagini sui rider, non è peraltro percepita come un limite ma come un’opportunità: il fattorino, tipicamente, è una persona che attribuisce un valore alla flessibilità.

La diffusione delle piattaforme – che poggia su questa scelta organizzativa – ha conseguenze economiche positive su almeno due fronti. Da un lato, consente ai consumatori di godere di un pasto migliore. Dall’altro, permette ai ristoranti di raggiungere una clientela più vasta. Tutto ciò, mettendo persone bisognose di un lavoretto temporaneo nella condizione di offrire i propri servigi, compatibilmente con le loro disponibilità. La società, nel suo complesso, ha solo da guadagnare: regolamentazioni troppo rigide che imbrigliano l’innovazione possono essere un piccolo passo politico per qualcuno, ma sono un grande balzo indietro per tutti.

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