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In Italia la parola più usata dai conservatori è “cambiamento”. Viene promesso, declinato, sottolineato, perorato. Ma mai nei suoi eventuali contenuti, essenziali per capirne significati, portata ed effettive novità. In Italia non si pratica i cambiamento. Si evoca. Si approfitta della caratteristica affluente, ricca, abbondante della nostra lingua per aggettivare, ridondare, baroccare il termine “cambiamento”. E per sfuggire alla domanda d’obbligo che, pragmaticamente, occorrerebbe porre ai retori del cambiamento: “che cosa vuoi concretamente cambiare? Come? In che modo? Non bisognerebbe più consentire a un politico il vezzo e l’abitudine dell’uso, e dell’abuso evocativo, del termine cambiamento.

Andrebbe istituita una sorta di penalità, di multa pedagogica e punitiva per chi usa a sbafo, demagogicamente e solo per evocazione subliminale, la parola “cambiamento”. E, soprattutto, senza farsi i conti in tasca. La sinistra è stata maestra di questa condotta deformante: il nominalismo, l’evocazione, la retorica solo onirica ed evocativa. Avete presente Veltroni ( e oggi l’allievo Zingaretti? Ecco. Quando la sinistra deve indicare che cosa, effettivamente, propone ha la risposta pronte ed esaustiva: cambiamento. È il termine passepartout, la garanzia che si è “nuovi. Letto Zingaretti? vuole “cambiare” tutto, persino il nome: vuole andare oltre la Ditta, oltre Renzi ma in che cosa, come e in che direzione ce lo dirà. Promette. Per ora, comodamente, evoca.

È nel genoma di sinistra questo uso evocativo, nominalistico, suggestivo e basta, del termine cambiamento. Ha radici nobili. Ricordate Marx? Il suo Manifesto concludeva un testo di atroci denunce dei guasti del capitalismo con la più suggestiva ed epocale delle evocazioni: “finora i filosofi hanno interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo”. Avrebbe fatto meglio a iniziare il Manifesto da dove lo concluse: dirci in cosa e come i comunisti avrebbero “cambiato” il mondo. Invece si limitò ad evocare il “cambiamento”.

E vennero disastri e fallimenti. Epocali. L’evocazione indistinta, nominalistica e astratta del cambiamento ha fatto scuola. Oggi è il connotato di un’altra, nascente, formazione politica: il populismo. Che cos’è questo termine? Un frullato di datati e desunti contenuti di destra e sinistra, un’agenda di idee demagogiche opposte, un’antologia del peggio dei desideri, suggestioni, pretese della destra più estrema e della sinistra più radicale: il nazionale( sovranismo ) insieme al socialismo ( statalizzazioni); il reddito e la pensione di cittadinanza a tutti indipendentemente dal lavoro ( “a ciascuno secondo i bisogni”, perorava il “Manifesto dei comunisti”) insieme alla flat tax, a risorse ai ricchi.

Tutta la marmellata, di destra e di sinistra, che il populismo affastella è tenuta insieme però dall’evocazione del “cambiamento”, sempre ricco di aggettivazioni ma dai contenuti poveri e, soprattutto, antichi. Cambiamento reazionario: un ossimoro. I populisti copiano i rivoluzionari. I riformisti, i liberali innovatori si distinguono. C’è bisogno di politici che smettano di minacciare di voler “cambiare” il mondo. E dicano, invece, in cosa e come intendano “migliorarlo”: con quali riforme fare) e con quali risorse. Disinteressarsi dei conti ( l’eterno difetto dei rivoluzionari) porta sempre il “cambiamento” a concludere in un solo modo: la restaurazione e la conservazione. È stata la maledizione della sinistra radicale. Sarà la maledizione degli esperimenti populisti.

Se la maledizione del cambiamento contagia il Pd (ancora)

In Italia la parola più usata dai conservatori è “cambiamento”. Viene promesso, declinato, sottolineato, perorato. Ma mai nei suoi eventuali contenuti, essenziali per capirne significati, portata ed effettive novità. In Italia non si pratica i cambiamento. Si evoca. Si approfitta della caratteristica affluente, ricca, abbondante della nostra lingua per aggettivare, ridondare, baroccare il termine “cambiamento”. E per sfuggire alla domanda…

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