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La figura di Sergio Marchionne è molto di più che Sergio Marchionne stesso. Non evoca soltanto il nome di una personalità di primo piano del management italiano, ma il simbolo di una visione del lavoro e dell’imprenditorialità distante mille miglia dalla nostra ottica comune.

Per capire cosa rappresenti veramente la sua “filosofia” d’impresa è sufficiente pensare a cosa fosse la FIAT prima del suo arrivo. La più importante fabbrica nazionale di automobili che offriva un’interpretazione paradigmatica del sistema capitalistico italiano, fondando il proprio successo industriale sulla gestione pubblica, vale a dire sul sostegno politico. Ovviamente, all’inizio del nuovo millennio l’ente torinese è arrivato carico dei fardelli di un mondo sul viale del tramonto. E la genialità di Marchionne è stata comprendere rapidamente che era necessario liberarsi, di fatto, dalla vecchia concezione assistenziale del lavoro, trasformando la FIAT da industria privata di Stato ad autonomo protagonista della globalizzazione dei mercati.

Il rapporto con Chrysler, di cui egli è personalmente divenuto dal 2009 amministratore delegato, è stato il risultato evolutivo di questo cambiamento di orizzonte commerciale, coronato da un successo inarrestabile. Una scelta che spiega perché l’Italia sia rimasta indietro. Dal punto di vista delle riforme la vertenza sindacale sul lavoro di qualche anno fa, che ha visto fronteggiarsi Marchionne, Confindustria e FIOM, parla da sé. La conduzione del manager abruzzese ha rivelato che se il sistema di un Paese non cambia, l’industria cambia Paese. E’ finito il tempo, infatti, della concessione di benefici mediante contributi politici, semplicemente perché lo Stato non dispone più di risorse e di potere sufficiente. Difatti alle aziende costa meno, in termini economici e di sviluppo, spostarsi laddove vi sono minori vincoli e maggiori possibilità di sviluppo.

Dispiace costatare che l’Italia non abbia saputo sfruttare le riforme di Marchionne per trasformare la propria mentalità, una resistenza illogica e anacronistica, presente, soprattutto, in ambito sindacale. A dire il vero il ministro Maurizio Sacconi tentò di trovare alleati in CISL e UIL, ma la potenza della CGIL vinse su tutti.

Il risultato è stato che il nostro è divenuto un mercato del lavoro sterile, edificato sul dogma rovinoso dei “diritti senza produttività”, e la FIAT, nel frattempo, è cresciuta all’estero fino ad acquisire la Chrysler.

Si sa: se rimani fermo, la storia va avanti lo stesso; e, purtroppo, a perdere il treno del progresso sono stati tanti cittadini che avrebbero voluto avere, invece, un’economia meno corporativa, più ricca e prosperosa. Perciò oggi, ancora più di ieri, qualsiasi riforma del lavoro è un utile toccasana, sebbene sfortunatamente arrivi in ritardo di almeno dieci anni rispetto ai bisogni concreti della nostra società.

(Articolo pubblicato sul numero 89 della rivista Formiche – febbraio 2014)

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