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Angelo Panebianco, noto politologo, è intervenuto a gamba tesa sul Corriere del 30 aprile avverso quelli che identifica come i veri poteri forti del Paese: burocrati e magistrati. Secondo Panebianco, in particolare, “le tecnostrutture […] possono convivere pacificamente solo con gruppi ed esponenti politici disposti ad inginocchiarsi in loro presenza e a baciare l’anello”. A fronte di un indebolimento della politica dopo la caduta del Muro e Mani Pulite, infatti, la palla sarebbe ormai in mano alle burocrazie ministeriali, senza le quali nulla si muove ed ogni riforma è destinata a perire (i maliziosi vi leggeranno la riforma della dirigenza del Governo di Matteo Renzi, affondata un secondo prima dell’approdo). E alle magistrature che, causa i paraocchi del formalismo giuridico, con le loro sentenze condizionano la vita democratica e condannano l’Italia alla marginalità economica internazionale. E’ un tema caro a Panebianco: legittimo e utile che lo riformuli sul primo quotidiano del Paese. Da burocrate di trincea, tuttavia, continuo testardamente a restare in disaccordo. Egli non parla certamente del sesso degli angeli: non sarebbe serio negare che vi siano dirigenti apicali che hanno una loro specifica agenda e che apparecchiano le tavole a loro piacimento in base alle proprie esigenze di potere e, talvolta, di privilegio. Essi vanno contrastati con ogni mezzo. Allo stesso modo, è ben possibile che vestano la toga magistrati che si fanno guidare dalle ideologie e che non riescono a cogliere le tante implicazioni socio-economiche che le loro pronunce comportano: costoro non contribuiscono al corretto svolgersi delle dinamiche del Paese e al suo benessere. Tuttavia, la battaglia che i tanti Panebianco portano da tempo avanti ha la pecca di offrire una versione manichea che coglie alcuni aspetti veritieri ma che, adagiata la polvere della pugna, presenta una visione scombinata di come funzionano le cose. Non me ne voglia il professore, che stimo senza retorica alcuna, ma il troppo astrattismo ha il serio limite di non afferrare appieno la realtà. La cattedra, evidentemente, permette una visione limitata che andrebbe integrata con chi sta sul pezzo, con quelle che Giulio Napolitano, lo scorso 17 aprile, sempre sul Corriere, ha chiamato le voci di dentro, di “chi prova, cioè, a far funzionare le amministrazioni ogni giorno in condizioni sempre più difficili”. Sia chiaro: non reputo né utile né necessario operare difese d’ufficio della burocrazia e delle tante colleghe e dei tanti colleghi che assolvono ai loro compiti pur prendendo da anni sonore legnate mediatiche. E tanto meno della magistratura. A far sentire le “voci di dentro” ci pensano sindacati e associazioni. C’è un elemento che, tuttavia, che va svelato, trattandosi – questo sì – di una bugia e, al contempo, di uno stereotipo. Alla politica debole non ho mai creduto, prima, seconda o terza Repubblica che dir si voglia. Anzi, se poniamo lo sguardo agli ultimi dieci anni, l’esperienza sul campo porta a dire che la politica – o, almeno, una certa politica – ha costantemente tentato di governare l’amministrazione attraverso una “sua” dirigenza, forzando la mano con tentativi di riforma che avrebbero, secondo molti, messo a seria prova il principio dell’imparzialità amministrativa e, di conseguenza, i diritti dei cittadini. Il politico schiavo della burocrazia è una mera fiction. Anzi, un’idea fissa che non si riesce a scalzare e che va si tanto in tanto ad arricchire il vaso di Pandora delle malefatte della macchina pubblica, ormai scoperchiato a favore della cittadinanza indignata. Sarebbe utile, una volta di più, ricordare che politica e amministrazioni dello Stato non sono due entità astratte che vivono in due regni separati e guerreggianti, con la Terra di Mezzo in cui ne pagano le conseguenze i poveri sudditi: sono fondamentali pezzi della Repubblica che hanno il dovere di lavorare assieme e che, incredibilmente, perlopiù lo fanno, pur fra frizioni e diffidenze. Come politologi e costituzionalisti ben sanno, aldilà delle regole scritte si sviluppa una gestione del quotidiano le cui dinamiche dipendono da tanti fattori, esogeni ed endogeni, non ultimi il clima nel Paese e le personalità degli attori. Senza dimenticare che non è la (sola) conoscenza tecnica che serve al politico (se c’è, meglio), ma la visione e la forza (politica, parlamentare, di alleanza sociale) di far quello che reputa giusto e utile. Due disinteressati consigli, allora. Il primo: opportuno denunciare le storture, ma si facciano nomi e cognomi. Basta sparare ad altezza d’uomo: serve solo a solleticare la pancia degli arrabbiati. Il secondo: se la smettessimo far roteare le mazze e imparassimo a separare la patologia e la fisiologia sarebbe già un bel passo avanti verso la messa a regime del Paese. Che, non dimentichiamolo, è cosa di tutte e di tutti.

I veri poteri forti in Italia. Almeno pare

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