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È ormai imminente il momento in cui il ministro Luigi Di Maio, riaprendo il dossier Ilva, incontrerà i commissari del gruppo in amministrazione straordinaria, Am Investco, che risulta aggiudicataria della gara per la vendita del compendio siderurgico, poi le organizzazioni sindacali, e quindi il sindaco di Taranto Melucci e, come ha dichiarato negli ultimi giorni, anche le associazioni ambientaliste ioniche.

È auspicabile inoltre che Di Maio incontri anche i sindaci di Genova e Novi Ligure – ove sono localizzati, com’è noto, impianti che operano “a valle” del sito pugliese – così come sarebbe opportuno che incontrasse i presidenti delle regioni Puglia, Liguria e Piemonte, Emiliano, Toti e Chiamparino, e il presidente di Federacciai Gozzi, per acquisire anche da loro preziosi elementi di valutazione sulla complessa vicenda del gruppo e sui passi da compiersi per il presente e il futuro del siderurgico tarantino che non è solo, come è stato scritto, la più grande fabbrica del Mezzogiorno per numero di addetti diretti e il maggior impianto di settore a livello europeo, ma è anche – è bene che non lo di dimentichi mai – la più grande fabbrica manifatturiera del Paese con i suoi 10.980 occupati diretti.

In proposito per chi non lo sapesse – o lo avesse dimenticato – è utile ricordare che non è Mirafiori, come molti continuano a ritenere, il maggior sito industriale italiano. In quell’area infatti solo poco più di 6.000 dei 17.000 addetti che vi lavorano sono adibiti alla produzione manifatturiera nelle aree Fiat carrozzerie, Fiat meccaniche e Fiat presse. Le altre 11 mila persone sono impegnate nell’assolvimento di funzioni tecniche, amministrative, finanziarie e di marketing per il gruppo Fca, ma non sono impegnate in attività di fabbrica.

Intanto è stato pubblicato uno studio della Svimez che ha posto in luce come il piano industriale di Am Investco possa avere un impatto sul Pil misurabile in 3,1 miliardi annui dal 2018 al 2023, ovvero quasi 19 miliardi nell’intero arco temporale. Dopo il 2023 l’impatto aumenterebbe a 3,9 miliardi annui. Sempre secondo le stime della Svimez, la produzione dei siti di Taranto, Genova e Novi ligure potrà sostenere nell’intero periodo del piano 51mila posizioni lavorative, fra aggiuntive e consolidate: di queste circa 42mila sarebbero attese in Puglia, mentre 9mila nel resto d’Italia.

È necessario ricordare peraltro che il rifornimento di materie prime per la produzione dell’impianto di Taranto – ma anche il trasferimento dei suoi semilavorati a Genova-Cornigliano – alimentano le movimentazioni dei porti dei due capoluoghi, quello ionico e quello ligure, così come il trasporto su gomma di elevate quantità di coils, lamiere e tubi verso i luoghi del loro utilizzo.

Ma andrebbe stimato anche l’impatto allargato che genera nei tessuti economici delle comunità locali la spesa di salari e stipendi degli occupati delle tre maggiori fabbriche del Gruppo Ilva e soprattutto di quella tarantina, così come dei redditi degli addetti delle aziende dell’indotto nei tre contesti territoriali.

Insomma il futuro dell’Ilva, ed in particolare del suo stabilimento in riva allo Ionio resta una grande questione nazionale, e bene ha fatto il ministro Di Maio nei giorni scorsi – come ha giustamente riconosciuto Carlo Calenda che lo ha preceduto alla guida del Mise – ad affermare che saranno prese decisioni senza improvvisazioni o fughe verso l’utopia, e senza creare shock che sarebbero devastanti per l’intera economia italiana e per i territori interessati, a partire proprio da quelli di Taranto e del suo hinterland.

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