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Va dato atto al governo di aver mantenuto fede al suo impegno con l’UE di perseguire un programma economico pluriennale orientato prima di tutto alla stabilizzazione delle finanze pubbliche.

Il Documento programmatico di finanza pubblica per il 2025 (DPFP) ne rende testimonianza indubbia nel rimanere entro i limiti che il Governo stesso aveva indicato nel Piano strutturale di Bilancio, su cui aveva ricevuto l’approvazione del Consiglio dell’UE.

Di questa coerenza intertemporale il Paese ha raccolto i primi benefici dai mercati finanziari nella forma della riduzione nel differenziale di costo dell’indebitamento rispetto al quello del paese di riferimento, la Germania.

Se la stabilità rappresenta l’asse portante dell’indirizzo economico, il sostegno alla crescita reale ne è anche un ingrediente essenziale, specialmente in un contesto di bassa inflazione.

Dal post-pandemia la crescita ha conosciuto una fiammata nel biennio 2021-2022, per tornare a declinare verso tassi reali dello zero virgola. In specie, a incrementi annui di 0,7% nel 2023-2024 sono seguiti rialzi dello 0,5% quest’anno e, secondo le tendenze acquisite, 0,7% all’anno per il successivo biennio e 0,8% nel 2028.

Rispetto a questo quadro tendenziale il Governo ha programmato nel DPFP di elevare di un decimale la crescita nel 2027 e 2028. Questo sarebbe il risultato dell’indirizzo che si vuole dare alla politica economica, confermando la sostanziale stagnazione in cui è impantanata l’economia da più anni.

Per dare un’idea concreta del significato di una crescita reale che si ipotizza allo 0,7% all’anno per il triennio 2026-2028, si consideri che alla fine del periodo il PIL reale sarebbe aumentato di appena il 2,1%.

Ovviamente, per effetto della superiore lievitazione ipotizzata per i prezzi (2,7% in media annua) il PIL nominale sarebbe cresciuto dell’8,2%, col beneficio di concorrere a sgonfiare il cardinale rapporto debito/PIL.

Si sarebbe potuto spingere la crescita oltre? Nel DPFP si indica che la crescita prevista per quest’anno è stimata collocarsi mezzo punto percentuale al di sotto di quella potenziale e che questo divario (l’output gap) tenderebbe a chiudersi nel 2027 per lasciare il posto nel 2028 al superamento di quella potenziale di 0,3 punti.

Accelerare su ritmi ancor più elevati del potenziale avrebbe comportato tensioni sui prezzi e altri squilibri. Dati questi limiti, si dovrebbe riconoscere che dalla crisi debitoria del 2008 l’economia italiana tende a viaggiare a bassa velocità, distanziandosi da quelle americana, cinese e di altri paesi europei ed emergenti che si muovono molto rapidamente.

I governanti da tanti anni avrebbero dovuto chiedersi come mai il Paese sarebbe caduto nella trappola della stagnazione ed intervenire con decisione sui fattori ritenuti alla base di questo andamento che tarpa lo sviluppo.

È quindi positivo che il DPFP voglia cogliere alcuni aspetti del problema ipotizzando, per le sue proiezioni, il contributo dei principali fattori all’origine della crescita potenziale nel quinquennio 2024-2028. Il quadro che ne risulta è chiaramente allarmante.

Il contributo del fattore capitale, ovvero degli investimenti, è posto stabile allo 0,5% fino al 2026 e in discesa allo 0,4% nel biennio successivo, mentre per effetto della loro notevole ripresa a seguito del PNRR, il loro apporto al potenziale di crescita dovrebbe essere molto più consistente dell’ipotizzato. Forse questo è il risultato dell’enunciata prudenza delle ipotesi assunte, ma vi sono ragioni più fondate per questa prudenza.

Gli esercizi di simulazione econometrica del MEF e della Confindustria stimano che in assenza della spinta delle misure comprese nel PNRR l’economia italiana sarebbe caduta in una significativa decrescita.

Considerando il solo effetto degli investimenti realizzati con le risorse del PNRR, nel DPFP si stima che il loro contributo ad innalzare la traiettoria di crescita reale rispetto all’andamento di base del PIL reale salga da 0,2% nel 2021 a 0,8% nel 2024 e dovrebbe continuare a salire a 1,2% nel 2025, proseguendo fino al picco di 2,7% nel 2027, per prolungarsi fino al 2031.

Aggiungendo l’impatto delle riforme realizzate, il risultato complessivo dell’attuazione del PNRR sarebbe di accelerare la dinamica del 2,9% nel 2025 rispetto a quella tendenziale. Di conseguenza, in assenza di questo apporto la traiettoria dell’economia sarebbe stata negativa.

La validità di questa conclusione si potrebbe condividere benché lasci qualche dubbio. In specie, si ipotizza che la traiettoria di base dal 2025 sia sempre in ascesa oltre il tasso di crescita reale osservato in precedenza.

Anche l’effetto delle riforme appare sovrastimato, considerato che in diversi casi si tratta di riforme varate da poco tempo, oppure ancora in preparazione, i cui effetti non hanno ancora avuto una verifica sul campo.

Le analisi econometriche di Confindustria, nell’ipotesi che si spenda almeno la metà del programmato, giungono a conclusioni nello stesso senso del DPFP, benché quantitativamente diverse sul ruolo del PNRR nell’andamento del PIL.

In particolare, stimano che sempre nell’ipotesi secondo cui si sia spesa la metà delle risorse previste per il biennio 2025-2026, l’effetto sarebbe di un impulso al PIL di 0,8% nel 2025 e 0,6% nel 2026. Pertanto, in mancanza di questo impulso, si sarebbe assistito a una decrescita di 0,3% quest’anno e un incremento di appena lo 0,1% nel prossimo.

Dal canto loro, i conti economici nazionali dell’Istat indicano che gli investimenti dal 2022 hanno avuto un ruolo trainante nella crescita, compensando in parte la stasi dei consumi e il mancato apporto della domanda estera al netto delle importazioni.

Ma il loro contributo non risulta tale da compensare l’andamento stagnante del Pil reale.

Il punto nodale nello spiegare la bassa espansione del reddito potenziale sta, peraltro, nella dinamica dell’apporto del lavoro e in quella della produttività multifattoriale. Le proiezioni del DPFP pongono il primo in discesa dall’1% nel 2004 allo 0,3% nel 2028, mentre il secondo è negativo fino al 2026 per azzerarsi nel biennio seguente.

In arretramento, altresì, la stessa produttività del lavoro misurata in termini di variazione del reddito reale prodotto per addetto e per ora lavorata.

L’andamento per entrambi è negativo nel biennio 2024-2025 e si stima che sia manterrà appena sopra lo zero (0,1%) sia come tendenza, sia nel programma governativo.

In un paese segnato dal declino demografico, qual è l’Italia, non basta espandere l’occupazione perché è anche necessario aumentare la produttività per riuscire a mantenere il livello di benessere acquisito in un passato migliore.

Secondo le proiezioni dei demografi, la popolazione tende a contrarsi in quanto né la natalità, né gli afflussi dall’estero sono sufficienti a compensare i decessi.

La produttività, inoltre, ristagna a seguito di oltre un decennio di insufficienti investimenti industriali che hanno condotto al depauperamento della consistenza del capitale. In Germania e Francia, invece, l’accumulazione di capitale è continuata.

La sfida che si deve affrontare sta, quindi, su due versanti: da un lato, puntare sull’incremento demografico e sollecitare gli inattivi a inserirsi tra gli occupati, e dall’altro lato, creare le condizioni perché attraverso gli investimenti, l’innovazione, la concorrenza e la riorganizzazione sia aziendale che del settore pubblico ciascun occupato riesca ad ampliare il valore del suo prodotto.

Gli USA sono riusciti a rilanciare negli ultimi anni la dinamica della produttività attraverso una rapida ed estesa partecipazione nell’assorbire l’ondata di nuove tecnologie che sta rivoluzionando l’economia e la società.

La Cina è impegnata a seguire l’esempio americano pur in un contesto di limitazioni e controlli più intensi che nelle democrazie occidentali.

L’Europa sembra, invece, in grande ritardo nel permettere alle forze dell’innovazione tecnologica di sperimentare nuovi approcci nel produrre e nel lavoro, di adattarsi alle nuove esigenze poste dal rinnovamento tecnologico, e di reinterpretare i suoi valori sociali ed individuali per riattivare tutti i segmenti “dormienti” della società.

Si preoccupa, invece, di porre nuove regole e limiti all’adozione di nuovi strumenti tecnologici come l’intelligenza artificiale e la sperimentazione biomedica, alla ricollocazione dei lavoratori verso i nuovi settori in espansione e al ricambio delle imprese.

In Italia, il rinnovamento è stato messo in moto dall’esecuzione del PNRR sotto il vigile occhio di Bruxelles. Sono stati introdotti nuovi metodi, come dare preminenza ai risultati degli interventi piuttosto che alla loro semplice attuazione.

Peraltro, le misure finanziate dal PNRR hanno svolto finora un ruolo essenzialmente di sostegno congiunturale alla domanda interna, che si è dimostrata motore principale della crescita negli ultimi tre anni.

L’effetto sarebbe stato ancor più grande se alcune misure non fossero state ridimensionate perché il Paese non è strutturalmente preparato ad attuarle in completo.

Le riforme nei campi della giustizia, concorrenza, appalti, istruzione e ricerca, e politiche attive per il lavoro, riforme a cui il DPFP dedica ampio spazio, non hanno ancora esplicato i loro pieni effetti. Appaiono, inoltre, poco incisive rispetto al profondo rinnovamento richiesto.

Portare a compimento l’attuazione del Pnrr, pertanto, è essenziale per alimentare i fattori di crescita in azione e contrastare i forti venti contrari che spirano.

Il protezionismo americano, la segmentazione del mercato internazionale, le sanzioni commerciali, i minacciosi rischi per la sicurezza nazionale, il forte apprezzamento dell’euro sui mercati valutari e i rischi di un notevole spostamento degli investimenti europei verso gli USA sono tutti ostacoli con cui il Paese deve confrontarsi.

A questi si aggiunge il difficile compito di programmare la strategia di crescita per il periodo post-PNRR. Ma i progressi compiuti verso la stabilità finanziaria e verso quella politica permettono di guardare ai prossimi anni con minore inquietudine. La stabilità è infatti condizione basilare per la crescita.

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