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Il Sudamerica si sta cacciando nei guai. E forse non lo sa. Nel primo giorno della sua visita in Cina, il presidente della Colombia, Gustavo Petro, ha annunciato la firma dell’accordo della nuova Via della Seta, con Pechino. Sigliamo Belt and road, sia l’America Latina che la Colombia sono liberi, sovrani e indipendenti”, ha detto Petro mentre visitava la Grande Muraglia. “Abbiamo deciso di fare un passo avanti profondo tra la Cina e l’America Latina”.
Proprio qualche giorno fa, il presidente della Colombia aveva detto che avrebbe firmato un memorandum di intenti per entrare nella Bri e che sarebbe stato il prossimo governo a prendere una decisione finale. Ma le ultima dichiarazioni, tuttavia, sembrano raccontare un’altra verità: e cioè che Bogotà entrerà fin da subito nell’iniziativa globale per lo sviluppo delle infrastrutture e la cooperazione internazionale lanciata dalla Cina nel 2013.

Insomma, la Cina si prepara a costruire e realizzare opere anche in Colombia. Viene da chiedersi se però se il governo di Petro sia effettivamente a conoscenza del fatto che in molti altri Paesi, la Via della seta ha portato più guai che benefici. I governi che hanno deciso di aderire al grande piano cinese, si sono ritrovati presto indebitati, perché per pagare la realizzazione delle infrastrutture hanno dovuto chiedere soldi alle banche del Dragone: il programma cinese di finanziamento delle infrastrutture, a monte della Belt and Road Initiative da mille miliardi di dollari è stato colpito da una spirale di prestiti inesigibili, con oltre 78 miliardi di dollari di crediti che si sono deteriorati negli ultimi tre anni. In altre parole, chi ha ricevuto i finanziamenti da Pechino, ora non è in grado di rimborsarli. Ancora peggio è andata all’Africa, dove magari la Via della Seta non avrà attecchito, ma di sicuro il debito tossico venduto da Pechino sì.

La Colombia, comunque, non deve andare troppo lontano per accorgersi dei rischi che corre. Il vicino di casa Ecuador, in tempi non sospetti, ha pagato lo scotto del suo abbraccio alla Cina. In piena pandemia il Paese è infatti sprofondato in una drammatica crisi energetica. Motivo? Una centrale idroelettrica che i cinesi avevano costruito in  pompa magna al tempo della presidenza del chavista Rafael Correa, e che ha smesso di funzionare. Colpa delle otto turbine di bassa qualità nel complesso della centrale Coca Codo Sinclair, che già nel 2012 avevano iniziato ad avere crepe. Ma Sinohydro Corporation, la grande società statale cinese di costruzione di centrali idroelettriche, era riuscita a nasconderlo per tre anni, fino al 2015. E nel 2016 questa centrale, costata 3.216 milioni di dollari, era stata inaugurata alla presenza del leader cinese Xi Jinping.

Martin Brown, ricercatore presso il Jack D. Gordon Institute of Public Policy della Florida International University ha sottolineato proprio questo. “Le centrali idroelettriche costruite dalle aziende statali cinesi hanno mostrato guasti tecnici, problemi strutturali e promesse non mantenute che ora gravano sull’Ecuador”. Degli otto impianti idroelettrici costruiti dalla Cina nel paese andino, Coca Codo Sinclair è l’esempio più emblematico. E non si salvano nemmeno le dighe, costruite sempre dall’ingegneria cinese.

Nel 2009 il governo dell’Ecuador ha deciso di dare un impulso all’economia nazionale chiedendo in prestito alla Cina 1.700 milioni di euro , in modo da poter avviare la costruzione di infrastrutture necessarie per lo sviluppo: autostrade, ospedali, scuole, ferrovie e, sopratutto, la diga Coca Codo Sinclair, adiacente la citata centrale. Un’opera immensa, dotata di numerose centrali idroelettriche, nata con lo scopo di produrre un terzo del fabbisogno elettrico della nazione, permettendo allo Stato di risparmiare 600 milioni di euro l’anno. Ma nel 2016, due giorni prima dell’inaugurazione dell’infrastruttura, gli ingegneri ne hanno testato il funzionamento e si sono resi conto che la diga è una specie di un enorme colabrodo.

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